mercoledì 8 aprile 2015

L'immagine vincente

Se dovessimo raccontare a qualcuno della nostra vita, come ne parleremmo?

Oggi mi sono fatto in questa domanda in quanto sono in giro con una persona a cui devo far vedere come faccio il mio lavoro. Non è la prima volta che mi capita, e spero che non sia nemmeno l'ultima, dato che è quello che è stato fatto con me. Il fatto che ti vengano assegnate delle persone a carico a cui insegnare qualcosa è sempre una grande responsabilità, ma pone soprattutto l'accento su che cosa dire.
Non posso certo parlare della mia lunga, encomiabile quanto inesistente carriera, per cui magari devo ripiegare sulla vita personale. Chi sono, da dove vengo, cosa ho combinato (per ora). Lo starter's pack, insomma. Quando si racconta una vita bisogna però sempre stare tenti a dove si pone l'accento. Magari se si raccontano troppi dettagli da una parte si finisce per trascurarne totalmente un'altra, fornendo un quadro incompleto, per quanto magari volutamente mancante. Mi viene in mente una frase di una canzone di J-Ax (non certo un ottimo esempio), che a un certo punto dice
...e raccontarmi veramente, non l'immagine vincente che la gente vuole vendere di .
Tutti cerchiamo di vendere la nostra immagine al nostro prossimo. Il motivo per cui lo facciamo non è così scontato come può sembrare, ovvero l'impressione che facciamo o il rispetto a livello sociale. Penso che lo facciamo come atto di auto-affermazione. Chiunque abbia mai provato a raccontare la propria vita, anche a se stesso, pone sempre l'accento su tutta una serie di occorrenze che delineano un personaggio. Chi racconta le proprie sventure, ad esempio, tende a raccontare l'elenco delle cose che non vanno, evitando di citare ciò che invece funziona. In egual misura, chi deve "vendere" la propria immagine vincente, ometterà tutta una serie di dettagli capaci di sminuire la propria posizione. Questo permette a noi stessi di vederci con occhi diversi. Dal di fuori, in un certo senso. Perché nel momento in cui un pensiero lo si esprime in un'altra forma diversa dal pensiero stesso, scritta o verbale che sia, smette di essere un impressione e diventa un fatto. Questo non significa che sia automaticamente giusto o sbagliato, solamente che non appartiene più alla sfera soggettiva, ma diventa oggettivo. Questo significa che possiamo persino finire per credere a ciò che raccontiamo di noi stessi, convincendoci di essere, in funzione del racconto, vincenti o perdenti.
Mi rendo conto che possa sembrare assurdo, ma è un po' così. Pensateci bene: quando vi succede qualcosa di bello, come mai non vedete l'ora di raccontarlo ad altre persone, o ai vostri cari? Ovviamente perché se rimanesse solo nella vostra testa avrebbe un significato completamente diverso, e potrebbe essere un Boost per la vostra autostima solamente se poi gli altri, venendolo a sapere, ve lo facessero notare. Non che questa non sia un'altra tecnica di "oggettivare" l'immagine vincente.
Se raccontiamo qualcosa agli altri, bisogna sapere che di tutte le persone che verranno influenzate da questo racconto, la prima siamo noi stessi.

2 commenti:

  1. giusto! Io sarei ancora più radicale: una cosa bella di me la conosco veramente solo quando un'altra persona me la dice. Un'altra persona a cui tengo, che stimo o a cui voglio bene. Spesso si sente dire che che siamo tutti degli egocentrici, cosa forse vera. E tuttavia non possiamo che conoscere noi stessi attraverso ciò che gli altri ci riflettono di noi.

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    1. Non sono totalmente d'accordo con questa cosa.. secondo me la capacità di denotare una cosa bella deriva dall'immagine riflessa che ne abbiamo. Ma un immagine riflessa non esiste, quindi, pur avendo necessità di un supporto (lo specchio), la sfera di interesse contempla solo il contenuto. La collettività quindi è indispensabile per il funzionamento del processo, ma uscendo e rientrando da noi stessi è come se non ci interessasse dove è stata nel mentre.

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