giovedì 30 aprile 2015

La bandiera dei nostri padri

Siamo quasi arrivati alla fine si questa settimana corta, dovuta alla presenza del 1 maggio, festa dei lavoratori. Amo talmente poco questa festività che l'anno scorso ho preferito lavorare, seppur in giro non ci fosse nessuno. Trovo che questo genere di festività comandate nazionali lascino più che altro il tempo che trovino, facendoci sentire meno in colpa per non ricordarci per tutto l'anno del fatto che c'è chi lavora, che abbiamo una repubblica oppure che c'è stata una liberazione. Ecco, proprio di questo voglio parlare, perché questo va ricordato.
Qualche giorno fa era il 25 aprile, ovvero sul calendario la Festa della Liberazione. Se andaste in giro per i licei a chiedere "Liberazione da cosa?" non sono così sicuro che avreste una risposta univocamente corretta. La guerra, quella vera, quella mondiale, è ormai passata da due generazioni, e a noi non resta che vivere tutto ciò che viene dopo il dopoguerra. Non abbiamo visto la brutalità della guerra e nemmeno sentito gli effetti e le conseguenze di ciò che la guerra ha significato per milioni di italiani. Si cerca di farcela ricordare, ma come è possibile ricordare ciò che non si può immaginare?
Ieri sera guardavo un film di guerra molto bello, ovvero Flag of Our Fathers di Clint Eastwood, che fa un bellissimo ritratto della battaglia di Iwo Jima e dei suoi eroi immortalati nella famosa foto. Tutto dagli occhi della fazione americana, mentre la stessa battaglia vista dagli occhi degli sconfitti c'è nel film Lettere da Iwo Jima, sempre diretto da Eastwood. Mi sono piaciuti entrambi molto come film, perché hanno una visione reale sulla guerra, che non usano immagini di soldati a brandelliper enfasi, ma per mostrare la brutalità di quello che ci è sconosciuto. Mostra come dei ragazzi, perché quelli non erano uomini, siano stati capaci di imprese grandiose. E non parlo dello scalare il monte Suribachi imbottito di artiglieria giapponese come un panettone con l'uvetta, ma di difendere un ideale di fronte a tutto, la fratellanza tra soldati e l'importanza di una bandiera.
Un singolo, sciocco pezzo di stoffa. Quanto potrà mai significare quel pezzo di stoffa, che sarebbe potuto diventare una tovaglia, o una maglia in egual maniera. Quella bandiera significò liberazione per tutti i soldati sull'isola. Significò vittoria, e un passo in avanti verso la sconfitta del nemico. L'aver alzato quella bandiera su quel monte, quel giorno (la prima, non la seconda ritratta nella foto) può non esser contata molto per quei cinque validi soldati, ma è stato un messaggio al mondo intero. Penso a cosa significhi per la mia generazione la nostra bandiera, come molti di noi non sappiano nemmeno l'inno nazionale. Ignoriamo tutto ciò che quel tricolore significava per le persone che ricordiamo nel 25 aprile. Quelli che furono degli eroi senza sceglierlo. Quelli che prima della fucilazione urlarono "Viva l'Italia", seppur avessero solo 18 anni. Non voglio schierarmi politicamente, né dire che con la liberazione siamo passati dal male assoluto al bene totale, anzi. Voglio solo onorare la memoria di coloro che hanno combattuto per un futuro migliore. Il nostro.
E proprio come loro hanno combattuto per noi, noi dobbiamo essere fieri di quello che abbiamo, e rispondere a nostra volta alla nostra chiamata alle armi.


mercoledì 29 aprile 2015

"Ho un divano letto.."

Ieri, proprio dopo aver finito di scrivere a pranzo il post del giorno, stavo facendo un ragionamento bellissimo, e mi ricordo di aver pensato "bello, voglio parlarne domani". Talmente bello e arguto che me lo sono dimenticato, quindi oggi parlerò di altro.
Sempre nella giornata di ieri, è venuta a trovarmi una mia amica, che aveva bisogno di supporto per una notte. Ecco, so già che state pensando male, ma in realtà si trattava di supporto fisico. Ok, detta così suona quasi peggio, intendevo dire che le serviva un letto. O almeno un divano. So che continuate a pensar male, quindi non dico più nulla.
Insomma, al di là che ha sbagliato fermata della metro ("ti ricordi dove scendere?" "Certo", come no), anche se in fondo io sono arrivato comunque in ritardo perché ho trovato traffico, siamo riusciti a trovarci. Arrivati a casa, era presto per mangiare e quindi ci siamo fatti una bella passeggiata al parco, in cui abbiamo parlato di un sacco di cose, specialmente quelle che non ci eravamo ancora raccontati. Ripensandoci lei non era proprio contentissima ma vabè.
Abbiamo passato una bella serata, ma è stato quando siamo andati a dormire che ho cominciato a pensare. A lei infatti ho riservato il mio divano, che si apre come un letto matrimoniale ma rimane un divano, per il quale non ho nemmeno un cuscino da letto o le coperte, mi sono quindi attrezzato con il sacco a pelo quello che usavo quest'inverno davanti alla tv per resistere al freddo con il riscaldamento spento per risparmiare (che raspa) e i cuscini del divano stesso per la testa. Che ospite schifoso che sono. Mi sento un po' in colpa. Tutto questo però mi ha fatto ripensare a quando io, durante l'università, mi facevo ospitare in giro, dormendo praticamente ovunque, su qualsiasi superficie, piana o inclinata che sia. Quei tempi sembrano così lontani ora, nonostante sia passato poco tempo, basti pensare che non mi piace dormire a casa dei miei perché c'è il cuscino basso. Mi sono imborghesito, anche se penso sia normale. Era bello quel periodo in cui quando veniva qualcuno a casa e non si faceva caso se fosse pulita o sporca, se il letto fosse comodo o meno, e se fosse in un quartiere rumoroso. Ero un moderno Mowgli del libro della giungla, capace di addormentarmi ovunque. Oggi sarei capace di farlo sotto un albero, ma non senza la garanzia che mi sveglierei con il mal di schiena. Sono un vecchio.
Insomma, è stato bello fare un favore ad un'amica, anche per avermi ricordato che sto invecchiando, ma lo sto facendo tra le comodità.
Come conclusione una piccola nota bibliografica. Giusto per ricordarmi ancora di più il periodo dell'università, quando se né andata io ho dovevo finire di prepararmi per uscire, per cui sono andato in bagno, dove avevo accuratamente lasciato un ultimo foglio di carta igienica che si sa bene essere come il tempo, ovvero meno c'è ne è, meglio lo si usa, ma con mia grande sorpresa ho trovato l'immagine fotografata. E non avevo la ricarica. Proprio come all'università. Can t'avegna 'n chencher.

martedì 28 aprile 2015

L'attesa

È vero che l'attesa di un piacere è essa stessa un piacere?

Ieri sera, mentre guardavo la tv lo so che la maggior parte delle mie storie cominciano così, ma almeno è meglio di cominciare con "mentre ero seduto al cesso.." a guardare il nulla che avanza, che non è un nuovo talent televisivo ma la totale mancanza di contenuti culturali presenti nella programmazione serale del digitale terrestre, con la testa completamente altrove, è passata una pubblicità che mi ha fatto pensare. Trattasi della pubblicità della Campari, in onda ormai da tanto tempo, che termina con la frase sopracitata. Non era la prima volta che la vedevo,  e non era nemmeno la prima volta che ragionavo sul significato di quella frase. Non sono mai stato un grande fan del Campari, specie da quando mi sono innamorato del Martini, sarebbe quindi come sentir dire da un milanista che gli piace l'inter, ma quella pubblicità mi ha fatto pensare, anche perché stavo vivendo quel momento di attesa. Mi stavo infatti scrivendo con una ragazza ecco spiegata la testa altrove e aspettavo alacremente le sue risposte ai miei messaggi. Quella sensazione meravigliosa di aspettare una risposta, deviata dalla consapevolezza che il contatto è in linea, ha visualizzato o addirittura sta scrivendo la risposta. Mi ha ricordato di quando si scrivevano gli SMS per organizzarsi, 10 anni fa, e nessuno si lamentava del fatto che non si avessero tutte queste informazioni. Si aspettava, senza nemmeno sapere se il destinatario avesse ricevuto la missiva. Persino la cosiddetta conferma di lettura delle email ci sembrava troppo invasiva, e molti la denigravano pur leggendo il contenuto.
Quella era "attesa". Quel momento in cui tutto può ancora succedere, momento in cui ci viene infusa sia il pessimismo che tutto vada storto che l'ottimismo che vada meglio di come pensiamo. Un mix di emozioni convulse, forti e contrastanti tra loro, a creare un armonia che trova pace solo quando la matassa si dipana e su ottiene una risposta. Il buon vecchio Oscar Wilde, nella sua grande opera "Un marito ideale" afferma che il momento più bello di una proposta di matrimonio sia l'attesa prima della proposizione, dopo è noia. Certo, pensiero molto da dandy e non pienamente condivisibile, specie per il dopo, ma certamente da acuto osservatore del genere umano.
Non mi piacciono i blog che finiscono i post non dando le risposte alle domande che sono state fatte, per cui ritengo di dover dare parere a riguardo. Sinceramente non penso che l'attesa del piacere sia essa stessa piacere, penso che sia solo un emozione molto forte. Rischiando di scadere nella banalità, il piacere è sicuramente un'emozione piacevole, ma questo non porta l'attesa, in quanto emozione, ad esserlo necessariamente per proprietà transitiva.

lunedì 27 aprile 2015

Cosa resterà di questi anni 10

È proprio vero che c'è un tempo ben delimitato in cui divertirsi in gioventù?

Sono abbastanza fiero di come sia andato questo weekend. Non tanto per quello che è successo, quanto più per il fatto che mi ha permesso di ricordare come era stata una parte della mia vita negli ultimi anni. Per essere precisi, di un anno e mezzo fa, ovvero il periodo che io amo chiamare l' "Erasmus a Milano". Sì perché a tutti gli effetti io ho fatto l'Erasmus a Milano, essendo uscito, divertito e frequentato con i ragazzi (pochi) e le ragazze (per lo più) che stavano svolgendo nella mia città questo interessante programma di studi all'estero. Certo, non è che l'abbia fatto in maniera ufficiale, anche perché non ero già più uno studente, ma questo è meglio specificarlo altrimenti rischia di essere fuorviante. Anche perché se la gente è capace di credermi quando dico che faccio l'apicoltore di lavoro e esporrò ad Expo nel Padiglione delle Api, penso sia meglio tracciare un limite di quando sto dicendo una scemenza, ma con la faccia seria. Detto questo, è stato un periodo folle della mia giovinezza, anche se ne parlo come se fosse successo chissà quanto tempo fa, in cui si andava a ballare anche due, tre volte a settimana. C'erano le energie, le possibilità e non c'erano preoccupazioni, si ballava, ci si divertiva, sempre con la consapevolezza (questo da adulto) che non sarebbe durato per sempre. Perché era ovvio che non si sarebbe potuto andare avanti così, nel bene o nel male.
Oggi ho rallentato molto il ritmo, il weekend spesso me lo prendo per rilassarmi, e se c'è una cosa che faccio tutti i sabati non è andare a ballare, ma una bella sauna e bagno turco. Ho mollato quando era il momento di mollare, cioè quando per continuare a divertirmi, per dirla nel dialetto degli skater, avrei dovuto andare sempre più grosso, che in italiano non significa nulla vi aspettate sinceramente che chi passa le proprie giornate in skatepark a farsi le canne abbia una nozione media di italiano? ma rende l'idea di dover fare sempre di più, esagerare sempre di più. Perché una storia è bella se è successa una volta, se capita di più comincia a diventare mondana. Io avevo capito che questo stava succedendo, e per divertirmi ancora avrei dovuto ballare di più, bere di più e spendere di più. E la cosa non è che mi arricciasse tanto, soprattutto l'ultima.
Così sabato ho deciso di prender parte ad una delle serate che frequentavo in quel periodo dei miti sorridenti da un windsurf, direbbe Raf, e senza remore mi sono divertito proprio. Tutto sembrava più leggero, più facile. È stato un po' come rivivere quella sensazione nel corpo di allora, ma con la mente qualche anno più grande, esperta. Posso dire che è stato un bel modo di onorare quel periodo, ma mi ha anche fatto capire, e apprezzare che sia appunto stato solo un periodo.
Voler continuare a vivere in quel mondo a cui ormai non appartengo più significherebbe rinnegare tutto il resto che sto facendo e ho fatto da allora, cercare di vivere di ricordi, più che godersi il presente. Se c'è qualcosa che ho imparato guardando Midnight in Paris, oltre che Hemingway era un fico, è che non si può rimpiangere quello che è passato perché qualcuno del futuro rimpiangerà quello che stiamo vivendo ora.
Ma notate bene che non rimpiangere il passato non significa non onorarlo.

sabato 25 aprile 2015

1000 volte grazie

Inutile dire che sono felice che il mio Blog abbia raggiunto 1000 visualizzazioni. Inutile perché significa che al mondo esistono persone che leggono quello che io scrivo, salvo quei 3 ingressi dagli USA e quello che è entrato dalla Thailandia. Che stesse cercando non lo so, ma lo contiamo comunque. Sono talmente contento che ho deciso di scrivere questo breve messaggio a tutti quelli che mi leggono, anche se, contrariamente allo spirito che anima questa pagina, si tratta di un giorno festivo. Cavolo, proprio ora mi sono ricordato che essendo sabato avrei dovuto fare la lavatrice. Vedi che anche scrivere scemenze alla fine torna utile? Ma, come sempre, il punto non è questo. Il punto è che non sono lettori unici ad essere interessati a questi miei deliri, questa finestra sulla mia testa, bensì lettori abituali. Ogni giorno ricevo quasi sempre lo stesso numero di visite, questo significa che chi c'è stato ieri ci torna il giorno dopo. La fidelizzazione del lettore è sinonimo di qui vorrei dire altissima qualità del prodotto editoriale ma non sarebbe minimamente vero capacità di generare contenuti sempre nuovi e coinvolgenti, che era proprio l'idea con cui è nata questa pagina. Mi farebbe piacere ricevere più commenti, ma evidentemente scrivo già delle verità talmente assolute che mi commento da solo. Ecco, appunto, mi commento da solo.
Ancora grazie mille.

venerdì 24 aprile 2015

Ritratto dello scrittore di successo

Stamattina mi sono svegliato e avevo voglia di scrivere. Vorrei parlare del fatto che ieri sera sono andato al cinema, evento eccezionale, dato che mi capita circa una volta all'anno, per cui potrei parlare solo di quello. Sono andato a vedere The Avengers, ultimo capolavoro delle industrie Marvel, ma non preoccupatevi, non impiegherò più di 4 righe per parlarne, anche perchè il commento in sala è stato "caruccio". C'è un cattivo, loro prendono un sacco di botte ma poi vincono. Non è forse questo lo sviluppo narrativo di qualsiasi film di supereroi dei fumetti? Bello, begli effetti, ma poche battute rimarchevoli. In ogni caso vi consiglio di andarlo a vedere.
Dato che ho appena fatto dei consigli per gli acquisti, vorrei ricollegarmi ad una domanda che mi è stata fatta ieri da più persone. Come mai è comparsa la pubblicità sul blog? La risposta è molto semplice: ho ricevuto una mail di richiesta a mettere annunci sul sito da parte del signor Google, e mi sembrava carino e assolutamente indolore. Ovviamente Mr G offriva anche un compenso, ma non certo qualcosa con cui pagarsi le vacanze. O una cena. Ecco, forse in un anno mi potrei comprare un cornetto. Non di marca, ovviamente.  Però è simpatica l'idea che ci sia un compenso, sebbene minimo per quello che sto facendo adesso. In fondo io scrivo solo quello che mi viene in mente, e, mettiamolo in chiaro subito, si tratta di una cosa che ho sempre fatto, anche quando non c'era nessuna che aveva la possibilità di leggere. Ho sempre pensato che fosse bello andare a rileggere quello che uno scriveva nel passato, quindi rivivere quei momenti. L'idea del blog è nata perchè non si può parlare sempre di cose serie, allora ci butto dentro anche quel meraviglioso teatro che muove, si agita e dà spettacolo dentro la mia testa. Sono oggettivamente pagato per dire delle scemenze, alternato a momenti di riflessione profonda, alternati di nuovo a frasi che non finiscono perchè
L'autore si sta cominciando a montare tantissimo la testa, cercate di assecondarlo. Il fatto di essere ormai diventato un novello Fabio Volo (cielo, no, speriamo seriamente di no), mi ha fatto ragionare su quello che sempre di più sta diventando un vero e proprio mestiere, ovvero quello del blogger. Al mondo c'è seriamente chi vive facendo questo, e magari prova anche lo stesso piacere nello scrivere che provo io. Se le mie 50 visite giornaliere diventassero 50.000, forse anche io riuscirei a farne un lavoro, ma sono altrettanto sicuro che la cosa mi scapperebbe di mano. D'altronde sono abbastanza bravo a farmi scappare di mano le vicende, ma in fondo è così che inizia una buona storia da raccontare ad un aperitivo, no? Ma il punto non è questo, trattasi di un argomento a me molto caro riguardante internet. La possibilità di inventare  un lavoro come il blogger è possibile solamente a seguito di ciò che più manca sulla rete. Se ci si pensa bene, tutti andiamo su internet per cercare qualcosa. Quante volte abbiamo consultato pagine di Wikipedia e quante volte abbiamo scritto o aggiornato le stesse? Siamo tutti in attesa che escano nuovi contenuti, ma nessuno, o quasi, li genera. E il bello è proprio qui. Io in questo momento sto generando "contenuti" non che ne vada particolarmente fiero, specie quando rileggo tutto quello che ho scritto, ma è un inizio, quindi sono diventato parte attiva di questo processo di informazione. Mi piace l'idea che qualcuno, anche solo una persona, possa prendere spunto da qualcosa che ho scritto io, e magari rifletterci sopra per condividere la sua riflessione. Lo dico perchè è quello che faccio io: leggo, ascolto, vedo e poi rispondo dicendo la mia.
Forse non sarò mai uno scrittore di successo  ho sempre preso 4 nei temi al liceo, nessuno se ne stupirebbe, ma almeno ho la propositività di essere parte attiva nella generazione di qualcosa. E la capacità di usare parole come "propositività" ho controllato, esiste.


giovedì 23 aprile 2015

Scusa ma ti voglio spegnere

Ieri sera non sapevo cosa fare. O meglio, sapevo benissimo cosa fare, ovvero stare davanti alla tv a casa. Non si può uscire sempre, in più era stata una giornata particolarmente faticosa, sarà stato per la bicicletta della sera prima, il caldo, la primavera, ma ero proprio stanco. in serate come queste normalmente accendo la tv mentre comincio a prepararmi la cena, così, anche se non la guardo, per avere un piacevole sottofondo. Le mie tempistiche normalmente mi portano a finire prima che inizino i programmi di prima serata, verso le 21, in maniera tale da poter lavare i piatti e sistemare tutto per le 21.15, ora normale di inizio dei films.
Non essendo tecnologicamente avanzato ma soprattutto cronicamente in bolletta, non ho certo la famosa televisione satellitare che ti permette i vedere qualsiasi cosa tu voglia in qualsiasi momento, giusto a delineare una minima dipendenza dal mezzo audio-visivo, bensì, come molti milioni di italiani compresi nella fascia di età 70-240, mi affido al solidissimo digitale terrestre, meglio noto con il nome di "quello che passa il convento". Scremati la maggior parte dei canali, e cambiando canale durante le televendite anche se devo dire che ci sarebbe un frullatutto che spacca di brutto, ci si fanno pure le carote alla julienne, tra l'altro se chiami "Ora" ti regalano pure altra roba. Penso che "ora" si riferisca ad un imprecisato momento del 1999, qualcosa di buono si riesca a trovare. Certo, i programmi di documentari che spacciano come nuova serie erano quelli che vedevo sul satellitare 2 anni fa, ma chi se li ricorda più? Quindi non è raro che mi spari per una sera come vengono prodotti dei bulloni (versi-stampi-togli-confezioni, era così complesso?), ma non ieri sera. Ogni tanto, quando non c'è proprio niente, mi butto sul film meno indecente che trasmettono. Non mi abbasso alle fiction, ho ancora una dignità.
Tutto questo purtroppo ieri sera ha portato, per curiosità empirica e mancanza di meglio, a vedere "Scusa ma ti voglio sposare", film tratto dall'omonimo libro di Federcio Moccia. Ora, non che io sia mai stato un appassionato del genere, ma ero incuriosito, più che dalla trama, dall'effetto che mi avrebbe fatto un film del genere ora che quel genere è passato di moda. Normalmente a questo punto faccio un breve riassunto, ma non ho idea di cosa sia successo. Cioè, c'è una ragazza di tipo 20 anni che sta con uno di 40 (inquietante), a loro sembra normale ma tutti li guardano come se fossero matti. Quando dico tutti, intendo proprio tutti, compreso quel bel ragazzo con la tuta sul divano che si stava sorbendo questa bella cacata. Al di là della capacità di esser riusciti a fare un cinepanettone romantico (con battute come "Sei così bella quando ti arrabbi" "Allora devo essere veramente una strafiga, perché sono incazzata nera" sic.), recitato da cani, doppiato da cani, e con marchette ovunque (a volte scandiscono proprio il nome delle aziende.. doppio sic.), quello che mi lasciato veramente perplesso è quanto sia grottesco il messaggio che passa. Va bene dire frasi come l'amore non ha età, ma questo non significa che allora vada bene tutto. Quello che si capisce da questo film è un esempio in negativo di quello che potrebbe succedere se una ragazza di 20 anni si innamorasse di un 40 enne. Anche perché lui è disperato in quanto mollato all'altare dalla precedente compagna e lei appena più che adolescente in cerca di modelli di vita. Mi sembra quasi che stimoli entrambe le categorie interessate a convergere, con i risultati disastrosi mostrati. Nella realtà sarebbe, ed è, inquietante. Ho fatto molta fatica a capire come mai avesse avuto un discreto successo il libro e poi il film, poi ho ho capito che era per gli stereotipi. In fondo i tipi fighi per una ragazza di vent'anni sono il belloccio poeta sulla moto (celo) oppure il quarantenne imbarcato di soldi con la mercedes ML, un castello e che prepara un viaggio a Parigi riempiendo le valige con vestiti nuovi (celo). Ovviamente lei si innamorerà dello squattrinato ma romantico.. no? Almeno su questo sono stati realisti.
Vorrei dirvi come va a finire, ma faceva talmente schifo che ho spento a metà.


mercoledì 22 aprile 2015

Masticando una gomma al gusto di bicicletta

Ieri sera non avevo voglia di stare in casa, ero stanco dato che ero stato tutto il giorno in giro ed ero rientrato alle 7. Mentre stavo per preparare la cena, mi è arrivato un messaggio da una mia amica, che mi chiedeva se avessi piani per la serata, proponendomi un giro in bicicletta per la città. Ovvio che ho accettato subito. Per quelli di voi che non sono di Milano, urge spiegare che questo è un evento straordinario, perché in questa città si tende a fare tutto tranne le cose normali, come andare a prendersi un gelato oppure fare una serata a giochi di società a casa di qualcuno. Qui si deve fare un ape, oppure un apericena, o un sushi. Non sanno quello che si perdono.
Insomma, prese le bici, anche se prima dovrei dire trovato parcheggio, impossibile nella zona ma mettendo la macchina davanti a un cancello sotto il ponte della stazione ero tanto felice di averlo trovato quanto sicuro che non avrei trovato la macchina, ci siamo incamminati pedalando verso il centro città. Come due ragazzini, per cui all'inizio subito a cannone, come avessimo fretta, per poi rallentare. Ovviamente mentre pedalavo succedevano due cose: mi sbracciavo per esprimere meglio quello che stavo dicendo, perdendo in maniera ritmica l'equilibrio costringendomi a sterzate dal raggio di 2 corsie, e mi si abbassava il sellino ad ogni buca. Ora, la mia amica Michela non è una ragazza bassa, ma non è nemmeno alta come me, per cui già il sellino era basso, in più scendeva sempre, fino a che con una bella buca in piazza San Babila me lo sono sentito giusto giusto in gola. Dollore. Arrivati in piazza Cairoli abbiamo parlato a lungo delle relazioni, delle persone e di noi. Diciamola tutta, abbiamo parlato più che altro di me, dato che sono un casino ambulante. Mi è piaciuto molto, anche perché la cornice del castello Sforzesco e la fontana appena riaperta in quella zona erano veramente suggestivi, il giro poi è proseguito perché siamo andati a prenderci un gelato, con non poche difficoltà tra cui che ho rischiato di cadere quella settantina di volte e cercato di far cadere la Miky un paio.
La serata è stata molto bella, ma niente di speciale. Oggettivamente non era niente di speciale, però c'era qualcosa che l'ha resa bella. Sarà che sembrava di essere in quelle calde sere di agosto in cui non c'è nessuno in giro, in cui riesci a pensare solamente quanto sia piacevole il fresco che ti sta arrivando. Non pensi a domani, che giorno sarà o cosa devi fare, apprezzi quello che stai vedendo, il Duomo, una piazza, una fontana, la luna. E, per carità, anche un gelato in buona compagnia. Ieri sera non ero preoccupato di fare tardi perché stamattina mi sarei dovuto svegliare e fare le solite cose, avevo voglia i stare fuori perché stavo bene, tanto che quando sono poi tornato a casa ho portato fuori la spazzatura, per stare ancora un po' fuori sotto la volta stellata. E perché mi ero ripromesso di farlo prima di uscire ma mi ero dimenticato. E perché avevo deciso di farlo perché cominciavano a girare le mosche per casa. Che schifo.
Insomma, sono andato a letto con un pochito de doloritos de ano ma felice. Con quel gusto di semplicità, come dice Jovanotti nel suo nuovo pezzo, anche se deve aver capito che qualsiasi cosa scriva va bene, per cui ora penso che le canzoni le scriva con l'autocorrect dell'iPhone (Seduta dentro a un aereo con il biglietto di un'altra hai salutato la tua classe di eroi per fare il grande salto...), sono andato a letto masticando una gomma al sapore di bicicletta. Che non è gusto "copertone", ma quella sensazione di non aver fatto niente di speciale ma qualcosa di bello.

martedì 21 aprile 2015

Proprio non ci arrivi?

Ma cosa vuole dire che una persona "non ci arriva"?

Innanzitutto ci terrei a scusarmi. Non che io svolga un pubblico servizio, ma ieri proprio non ce la facevo a scrivere. Sono stato in macchina a guidare per circa 400 km, 5 delle 8 ore lavorative, ed una volta tornato a casa ho dovuto preparare la cena e stirare. Sì, lo ammetto, mi stiro da solo le camicie. E le polo. E anche le magliette. Ma sono abbastanza fiero del risultato, in più ogni tanto un po' di lavoro da casalinga fa apprezzare maggiormente quello che si ha. Insomma, volevo dire che mi è un po' mancato non poter mettere nero su bianco tutto quello che mi è passato per la mente mentre attraversavo la campagna mantovana, in maniera particolare perchè non ho ricevuto molte chiamate e quindi sono stato lungamente da solo in compagnia della musica.
Ho avuto modo di ragionare sull'istinto degli animali, nel momento in cui ho visto due uccelli che facevano una cabrata sopra l'autostrada degna dei migliori Top Gun, ho pensato a come un'azione vari di significato in funzione del contesto in cui essa venga svolta, pur essendo in sé stessa la medesima, ho anche pensato all'intelligenza delle persone, e di come effettivamente certe volte non ci arrivino.
Su questa riflessione mi ci sono fermato parecchio, perché trattasi di un argomento che non è per niente superficiale. Molte volte, nella nostra giornata, specie nella nostra vita, abbiamo a che fare con persone che la pensano diversamente da noi. Spesso, però non si riesce a capire l'altrui punto di vista, sia per orgoglio personale che per differente mentalità. Trovo che sia meraviglioso che gli esseri umani riescano ad interagire nonostante tante diversità, ma non è questo il punto. Mi è capitato, come a chiunque penso, di non riuscire a fare capire il mio punto di vista, nel quale riponevo grande fiducia, a tal punto di ritenere la mia riflessione non più soggettiva, bensì oggettiva, e trovare davanti a me un muro. In momenti come questo non bisogna fissarsi sul fatto che esistano queste persone, ma come comportarsi. Una delle prime cose che mi ha stupito,quando sono entrato nel mondo dei grandi è stato che non sempre trovavo di fronte a me, nell'interazione, un adulto. Ovviamente, in questo caso la parola "adulto" viene riferita all'immagine che ne ha un bambino, ovvero sinonimo di "colui che sa tutto", o quantomeno ha l'autorità di dire "lo capirai quando sarai più grande". Bene, al mondo esistono persone che nemmeno da grandi ci arrivano. Non voglio cominciare una discussione sul l'intelligenza media delle persone, solo fare il punto sulla questione. Spesso ci troviamo a trattare con qualcuno che non ha, per capacità, caratteristiche personali, educazione o indole, la flessibilità mentale di capire il nostro punto di vista, e spesso non ci si può fare nulla. Questo non significa che bisogna assecondare chiunque la pensi diversamente a noi, però l'unica cosa che attivamente possiamo fare è mostrare disponibilità nei confronti delle altre persone. Ascoltare, ad esempio. Nel momento in cui, anche avendo ascoltato, non riusciremo a capire, avremo almeno la soddisfazione di aver fatto un tentativo per capire. Bisogna lasciare la libertà alla gente di esprimere la propria opinione, ma anche avere la pazienza di capire le argomentazioni altrui.
Non ci sono persone che non ci arrivano, ma ci sono un sacco di persone che non ascoltano.

sabato 18 aprile 2015

Slow thinking

Era decisamente un po' che non mi capitava di iniziare un post senza sapere cosa dire. Questo non mi/vi autorizza a chiudere qua, anche perché sono abbastanza fiducioso di riuscire ad andare a parare da qualche parte. Al liceo ero abbastanza bravo, specialmente nelle interrogazioni di filosofia, ad riuscire a parlare fino a che il professore non mi interrompeva per cambiare argomento. Proviamoci anche qui.
Normalmente gli argomenti che tratto riguardano pensieri e riflessioni generate dal giorno precedente a quello in cui scrivo. Un evento, una discussione, un film normalmente sono gli eventi scatenanti di questi pensieri, non fosse il fatto che ieri, come in questo momento sono inchiodato ad una sedia a seguire un congresso. Per carità, interessante e utile dal punto di vista lavorativo, ma sicuramente al momento sono distratto dalla lignea e scomodissima sedia su cui mi trovo, che, con cadenza meticolosamente inquietante, mi blocca la circolazione di una gamba e dell'altra in funzione di come le ho incrociate. Dato che al congresso si sta parlando di trombi e coagulazione, mi sta salendo anche una certa qual ansia che potrebbe venirmi un ictus. Che morte ingloriosa. Non avrei nemmeno il gusto di chiedere "c'è un medico in sala?" in mezzo a una platea di cardiochirurghi/rianimatori. Insomma, sono parecchio distratto ma al tempo stesso non ho modo di interagire con il mondo, per cui lasciato miseramente a me stesso posso solo guardarmi attorno e fare la faccia di quello che sta ascoltando. Fai il disinvolto.
Il luogo in cui si sta svolgendo questo bell'evento è il prestigiosissimo Collegio Borromeo di Pavia, che pare sia uno se non il collegio universitario più importante della città, con rivalità accademiche, ideologiche e tradizionali nei confronti degli altri collegi. Questo mi ha fatto pensare al cameratismo di quando in collegio ci stavo io, a Roma. Mi ha ricordato quando organizzammo una caccia al tesoro a Vincenzo per fargli ritrovare il suo materasso (per un giorno e mezzo camera mia ha avuto un "divano"), l'abbruttimento dei periodi di studio matto e disperatissimo (quei 4 giorni prima dell'esame). Mi ha fatto ricordare al periodo dell'università, non così lontano temporalmente, ma distante come impostazione mentale. Sono cambiato molto, in questi 3 anni, al punto tale da guardare con occhi nuovi le foto di quel periodo. E pensare che non lo avrei mai detto, nel senso che quando all'epoca immaginavo me stesso come sarei stato ora, non avrei mai creduto sarei cambiato così tanto. Una volta ho sentito un saggio che ha detto che viviamo la nostra vita in fotogrammi, in cui tutto sembra immobile e niente pare cambiare, che però fanno parte del film della nostra vita. È una visione romantica, in cui piace pensare che, come un fiore che esce dalla terra, la vita scivola talmente lentamente che la frenesia del campionamento della vita moderna non ci fa apprezzare il cambiamento. La bellezza di essere una specie quadri-dimensionale è proprio la possibilità di poter considerare l'immagine di sé nel passato e soprattutto nel futuro, con possibilità e opportunità. Le fotografie dentro quali noi pensiamo di vivere sono tri-dimensionali, ma l'evoluzione di questi sistemi nella dimensione tempo genera un universo con un numero minimo di 4 dimensioni, di cui non siamo in possesso, seppur attori e interpreti delle variabili di questo sistema. La nostra azione ci farà discostare dalla retta dell'andamento ideale di poco o di molto, in funzione del nostro contributo. È il concetto di fare la differenza.
Sembra che tra poco si vada a mangiare. Devo rimanere sveglio, altrimenti mi passeranno tutti davanti. L'essere quadri-dimensionale si immagina con la pancia piena. Poi il resto si vedrà.

giovedì 16 aprile 2015

Scende alla prossima?

Quanto possiamo sapere della gente che ci circonda?

Ieri sera, dopo una serata brava a base di aperitivo, vip, chiacchiere sul nulla e sushi (molto milanese, soprattutto l'ultima cosa) sono tornato a casa usando la metro. Non è che sia una cosa così mirabolante, tanto di esser degna di nota, eppure ogni volta mi fa strano. Utilizzerò i mezzi pubblici (principalmente la metro) almeno 2/3 volte a settimana, per cui non mi posso certo definire pendolare, più utilizzatore saltuario che neofita dei mezzi pubblici. So che mi devo mettere nel primo vagone perché la coincidenza con il cambio della metro alla tal fermata a cui scendo di solito è più comodo, ma se prendo la metro da una fermata da cui non sono mai salito può essere che sbagli direzione. Come è successo ieri sera. Spero di aver reso l'idea.
Insomma, quello che volevo dire, è che tutte le volte che mi ritrovo a prender la metro faccio sempre la stessa cosa. Guardo le persone. Ovviamente non con lo sguardo fisso e mantenendo il contatto visivo in maniera inquietante, ma do una sbirciatina, mi lascio incuriosire. Sì, perché le persone mi fanno lo stesso effetto delle versioni di latino. Sono strane, ne so poco niente, non le capisco e quindi invento delle bellissime storie su di loro, che magari non centreranno nulla con i personaggi reali, ma li rende più vicini, più umani. Non vi siete mai chiesti dove sta andando la persona seduta affianco a voi? Perché dovreste chiederglielo, in fondo non vi interessa in termini utilitaristici, ma è solo la vostra curiosità.
Mi sento un po' come si dovrebbe sentire Novecento, protagonista dell'omonimo film sulla Leggenda del Pianista sull'Oceano, quando in compagnia dell'amico Max comincia ad inventare le storie delle persone. Storie belle, che danno una spiegazione al perché la gente è lì, storie che mettono in mostra il bello e il brutto di ognuno di noi. Quella piccola licenza poetica che rende le nostre vite degli splendidi romanzi.
Vedere una donna molto stanca vestita bene mi fa pensare che lavori fino a tardi perché vive un periodo difficile, magari non ha tempo di curarsi di se perché ha dei figli, oppure una madre anziana a carico, e improvvisamente me la vedo tutta affaccendata nella sua vita. A volte immagino anche una musica di sottofondo.
I treni, che siano ferroviari o metropolitani, sono da sempre associati ai ricordi, all'immagine di un viso riflesso in un finestrino mentre guarda fuori. Io ho guardato fuori da un sacco di finestrini vedendo la mia immagine riflessa, e il sentimento che si prova è chiaramente descritto dal quadro di Boccioni intitolato "Quelli che vanno" (http://www.frammentiarte.it/dall'Impressionismo/Boccioni%20opere/32%20Boccioni%20-%20Quelli%20che%20vanno%20degli%20stati%20d'animo.jpg).
Magari sono tutto matto io, magari è solo un modo di passare il tempo mentre si è sotto terra, in aperta campagna, in mezzo al nulla. Ma mi piace pensare che ogni persona sia un'entità a se stante, che quindi merita rispetto a priori. Come quello specializzando che era in sala parto la notte in cui siete nati, una persona di cui nessuno si ricorda, ma che in quel momento ha incrociato la sua vita con un momento importante della vostra.
Poi magari non scenderemo alla stessa fermata, o andremo dalla stessa parte, ma entrambi ci andiamo per vivere le nostre vite.

mercoledì 15 aprile 2015

Io dico quello che voglio

Tutti hanno il diritto di dire ciò che vogliono?

Oh, finalmente. Oggi si parla di temi di pubblico interesse, non come anticipato ieri solo di discussioni competenti alla rubrica dei cuori solitari. Alcune persone infatti, mi hanno fatto notare, dopo aver letto i miei post, le parti su cui sono in disaccordo. Non sto indicando nessuno, Bea. Come ogni meravigliosa idea e verità assoluta che esce da me con forbiti voli pindarici, anche gli ultimi post erano assolutamente incontestabili, ma evidentemente qualcuno non sta capito.
Battute a parte, mi fa sempre piacere che ci sia un riscontro sull'argomento trattato, anche da un punto di vista diverso. Questa è una delle motivazioni che mi hanno spinto a lasciare il commento pubblico, di modo che tutti possano esprimere il proprio parere riguardo all'argomento del giorno. Inutile dire che anche questo è un invito a lasciare commenti.
La questione però si sposta leggermente a questo punto, ragionando quasi simultaneamente sulla legittimità del commento. Io mi fido dei miei lettori, che proprio perché sono pochi li conosco quasi tutti, ma effettivamente, è giusto che chiunque abbia la possibilità di commentare? Verrebbe da rispondere in maniera automatica di sì, perché la libertà di espressione (di cui questo piccolo Blog è un esempio esso stesso) è una colonna portante della società moderna. Oppure no? Perché allora se uno dice qualcosa di fuori luogo, insensato o anche stupido diventa il soggetto dell'espressione "hai perso un'occasione per stare zitto"? Siamo veramente disposti ad ascoltare tutti? Una volta chiesi ad una persona se potevo fare una retorica domanda stupida, ovvero stupida nel senso di facile e banale, e in risposta ebbi un rifiuto. "Se la domanda è stupida non ha senso stare ad ascoltarla".
Penso che ci sia una divisione in categorie, che tra loro sono ben definite, delle opinioni che meritano di essere ascoltate e no. Un ottimo esempio ci può venire dalla discussione mediatica generata qualche settimana fa da un tweet di Jovanotti che (appunto) lodava Salvini per la capacità di discussione e libertà individuale di esprimere il proprio parere. Il polverone si è scatenato quando Fedez, che di mestiere fa il rapper (ricordiamolo), ha cominciato a inveire in quanto secondo lui non fosse giusto lodare chi discrimina.
In questo esempio Jovanotti fa parte di una prima categoria, che ascolta e risponde a ciò che legge/sente. Cerca il dialogo costruttivo e apprezza che ci siano persone che la pensano diversamente. Il rapper milanese invece fa parte di un secondo gruppo, il quale non apprezza chi la pensa diversamente, anzi li discrimina a tal punto che non vuole nemmeno sentirli. Il problema di questo gruppo non sta in quello che dicono, neanche diverso dal primo, ma in quello che ascoltano. La comunicazione, base della crescita, si basa sulla presenza di due parti, un mezzo (a voce o per iscritto) e la comprensione del messaggio. Due persone che esprimono entrambe il proprio parere non stanno comunicando, stanno parlando da sole. Potrebbero parlare anche contemporaneamente, tanto non si stanno ascoltando. Se invece si ascoltano, possono discutere e capire meglio il soggetto della comunicazione.
In sintesi penso che il problema non sia in quello che uno possa dire, o almeno non il primo problema, quanto quanto si è ascoltato prima di aprir bocca.
Lo so. Ho perso un'occasione per stare zitto.

martedì 14 aprile 2015

Lui sì che le capisce le donne

Prima di cominciare questo nuovo post, ci terrei a precisare che non è che sia pianificato che io parli quasi solo di sentimenti, il problema è che le mie giornaliere epifanie mi sembrano interessanti solo quando riguardano la sfera emotiva. È forse colpa mia se mi escono delle buone idee su argomenti poco maschi? Quando uno ha un buona idea, deve fare di tutto per assecondarla, anche se poi si rivela una sciocchezza. La mia storia personale è costellata di azioni che all'epoca mi sembrava una bellissima idea, quali ad esempio prendere a 70 km/h una rotonda in riva al mare in piega con il cinquantino, per strisciare con il ginocchio. Che ovviamente era privo di protezioni. Mica potevo pensare a tutto, avevo già avuto l'idea brillante di prenderla più veloce per piegare di più. A chi fosse interessato, sì, ho strisciato con il ginocchio sinistro. E quello destro. E per svariati metri con il sedere.
Insomma, tutto questa filippica sulle pessime idee che una volta non sembravano tali per introdurre l'argomento odierno. Ieri sera mi sono guardato, con non poco gusto e non certo per la prima volta, il film Hitch. Per chi non lo avesse visto, è una commedia in cui c'è uno molto bravo a rimorchiare le ragazze che di lavoro aiuta a costruire l'atmosfera perché una donna si innamori di un uomo, nel senso buono che poi si sposano, vissero felici per sempre e via dicendo. La parte finale è particolarmente interessante, perché mette in luce come gli uomini necessitino sempre di un piano di azione, mentre le donne sono attratte dalla spontaneità. In questo gioco delle parti (erano 2 giorni che volevo usare questa espressione), entrambi gli individui cercano di dare il meglio di sé,  riscendo nell'impresa impossibile di far toccare due rette parallele. Se infatti l'uomo offre programma e la donna chiede improvvisazione, verrebbe da pensare che non sia possibile trovare una quadra. Invece la lettura è più delicata, e nella commedia viene ben spiegato. Le donne, più attente al dettaglio, ci vogliono spontanei negli intervalli tra un programma e l'altro, in quel lasso di tempo che neanche consideriamo. Nessuna donna vuole sentire la spontaneità di un ribadito "no, ma io ti amo davvero tanto", magari in mezzo ad un bacio che già dichiara ampiamente le proprie intenzioni.
Ci tengo a precisare: badate bene di non confondere programmazione con finzione: sapere come comportarsi non vuole dire non essere se stessi. È grazie a questo che le due rette parallele, all'infinito, si possono incrociare. Ma il concetto di infinito non è chiaro in una natura umanamente finita, per cui cerchiamo di paragonarlo a qualcosa che conosciamo e possiamo descrivere.
Le donne sono affascinanti, ma hanno un problema: vanno capite. E nel momento in cui le capirò (quanto basta), sono abbastanza sicuro che le troverò ancora più affascinanti. O mi limiterò a dire che sono fuori di testa.

P.s. Ieri è nata Aurora, nipote del mio amico Vito. Il primo commento è stato "cuante capidde" (quanti capelli). Benvenuta.

lunedì 13 aprile 2015

L'importanza di un rifiuto

Quanto può essere importante nella nostra giornata un rifiuto?

Non mi sto per mettere a parlare, in questo bel lunedì di aprile, dell'importanza della raccolta differenziata, per quanto a livello di sostenibilità e vantaggio economico cominci a diventare molto interessante. Lo sapevate che i pneumatici usati, che una volta venivano ammassati in discariche a cui spesso veniva dato fuoco, ora vengono tritati e ci fanno quegli odiosi pallini che ricoprono i campi da calcio sintetici? Oppure vengono utilizzati per abbattere del 90% la costruzione dei panetti antisismici nelle fondamenta delle case. Insomma, questi si fanno pagare per prendere in casa la materia prima, che trasformano e rivendono. Doppio guadagno. Ma non volevo parlare di questo.
Essendo già ampiamente andato fuori tema, volevo parlare di un rifiuto morale, ovvero quando le cose non vanno come uno dice, o spera. Ne parlo perché ieri ho chiesto ad una ragazza di uscire per un caffè (evento scatenante) e questa mi ha risposto di no. Non è una cosa che succede spesso, sia l'uscire con una ragazza (non mi ci metto molto d'impegno in questo periodo) che il fatto che questa rifiuti. Oggettivamente un caffè non si nega a (quasi) nessuno, perché è un modo per conoscere una persona e non si deve giudicare un libro dalla copertina. Si deve giudicare dal numero di pagine (come disse Paolo Bitta), e questo ne ha troppe. Insomma, morale della favola, ci sono rimasto un po' male per come è andata. Sorvolando sulle motivazioni di questa sconosciuta, che possono benissimo starci (chi sono io per dire alla gente cosa deve piacere?) voglio parlare di come questo rifiuto ha cambiato la mia giornata. Perché un rifiuto facilita l'introspezione, l'analisi di se stessi con occhi diversi. Cominciamo a farci delle domande, a rivedere i fatti per come sono andati e per come sarebbero potuti andare. Capire dove abbiamo sbagliato ci permette di prevenire errori futuri, o almeno compierli coscientemente. Il fatto di sbagliare, oltre a renderci più umani, ci rende anche più attenti in quello che facciamo, basti pensare al modo in cui parcheggiamo prima e dopo aver sbocciato la macchina: nei mesi successivi facciamo molta più attenzione al modo in cui manovriamo, fino a raggiungere di nuovo un grado di sicurezza. Solo attraverso errori di questo tipo possiamo migliorare noi stessi, fino al punto di raggiungere una sicurezza tale da poter trascurare il superfluo, come la nostra attenzione quando si guida in autostrada. È il concetto più ampio di critica costruttiva.
Questo rifiuto mi ha sicuramente cambiato la giornata, ma mi ha anche fatto capire qualcosa di più di me che non posso che utilizzare per migliorarmi. Mi sento un po' come se fossi stato riciclato, passando da una vecchia versione di bottiglia di plastica ammaccata e vuota a maglione di pile novo di pacca.

venerdì 10 aprile 2015

Vorrei incontrarti tra vent'anni

Se incontraste voi stessi nel passato, cosa vi direste?

Sinceramente non so se parlare di questo argomento, ma lo faccio comunque, in quanto si intona perfettamente con la filosofia di questo Blog. Ieri stavo rileggendo il mio libricino, quella piccola raccolta epistolare di lettere a me stesso che testimoniano la caduta e la risalita dopo la fine di un grande amore. Lo rileggevo per contollare errori, ma anche per sistemare alcune cose, un po' troppo personali per il grande pubblico. In fondo era stato scritto nella foga del momento (per modo di dire, è durato 5 mesi questo momento), e quindi le parti troppo private andavano un attimo ritoccate. Devo però dire che il contenuto è rimasto inalterato, è stata solo la forma ad essere modificata. Non ho cercato di romanzarlo o di raccontare eventi diversamente da come si sono svolti, ma ho cambiato alcuni nomi e cancellato un paio di righe. Ah, ho anche rifatto la copertina, che quella di prima era proprio brutta.
Venendo al punto, la cosa che mi ha fatto strano, dopo aver dovuto rileggere tutto, è stato il commento che ho fatto.
Che lagna...
Non mi sarei mai aspettato di commentare in questa maniera il mio stesso lavoro, le mie emozioni, e sì, anche me stesso. Mi ha fatto vedere me stesso con occhi diversi, che facendomi pensare a cosa gli altri vedevano quando interagivo con loro in quel periodo. Ho infatti scritto un messaggio di ringraziamento alla fine a tutti gli amici mi hanno sopportato, ad alcuni ho anche scritto.
Il punto è proprio questo, come nella domanda iniziale. Se all'epoca mi fossi visto con i miei occhi di ora, cosa mi sarei detto? Ho sempre pensato che se incontrassi una versione più giovane e inconsapevole di me, gli direi che andrà tutto bene, e di voler bene alle persone che ha vicino. Tutto qui. Può sembrare banale, ma non avrei il desiderio di dirgli di più. La vita è una magnifica sorpresa, e non avrebbe senso viverla sapendo come va a finire. Non bisogna rimpiangere di aver fatto delle esperienze, perché ci hanno reso ciò che siamo, nel bene e nel male che sia, non importa. Penso che direi solamente di aver fede in me stesso. Perché se c'è qualcosa che la vita mi ha insegnato, è che esiste sempre una soluzione. Magari non sarà una soluzione facile, o la più comoda, oppure nemmeno la più breve, ma almeno una c'è sempre. Anche nelle situazioni che sembrano senza speranza, esiste la soluzione di lasciare le cose come stanno, e guardare avanti.
Sii tranquillo, me del passato, ti aspettano grandi cose. Sii tranquillo, me di ora, ce ne saranno in serbo sicuramente altre.

mercoledì 8 aprile 2015

Kate & Leopold

Non esistono più uomini d'altri tempi o le donne hanno smesso di cercare?

Ieri sera stavo vedendo un film che a mio parere è molto bello. Inutile creare suspense, dato che è il titolo stesso del post. Ho visto un film con Meg Ryan da solo a casa bevendo un Martini, e allora? Non credo che questo significhi qualcosa, innanzitutto perché non ho pianto (in tal caso avremmo cattive notizie per voi), anzi l'ho trovato piacevole come sempre (non era la prima volta che lo vedevo), ma in particolar modo per il ragionamento che ne è uscito e che sto cercando di spiegare in questa pagina.
Per chi non avesse visto il film, in sintesi, Hugh Jackman è un duca del 1800 che viene trasportato nel presente (di 15 anni fa, si parla ancora di palmari e fax)  e conquista elegantemente una Meg Ryan troppo disabituata ad essere trattata bene. Normalmente dei film contesto il fatto che certe reazioni o tempistiche non siano reali, con la classica frase "nella vita vera non è proprio così", mentre questo film mi piace perché, fatta eccezione per il buco nel continuum spazio-temporale, tutto quello che succede è come nella realtà. Le donne oggigiorno si sono disabituate ad essere trattate bene, e ogni volta che qualcuno cerca di comportarsi elegantemente tendono a rimanerne sorprese. Non dico che gli uomini siano tutti zozzi e maleducati, dico che la tanto agognata parità dei sessi ha lentamente posto la figura maschile e femminile sullo stesso piano. Detto con un proverbio, la confidenza fa perdere la riverenza. Abbiamo smesso di alzarci da tavola quando una signora si alza, di lasciarle sempre il lato del muro sul marciapiede quando si cammina, di farla sedere nel posto che ha la vista migliore a tavola. Ma questo non è per loro, né per noi. Porre al centro dell'attenzione una signora è un modo di portarle rispetto, quindi quale miglior modo di denotare uguaglianza?
Mi piace credere all'idea del principe azzurro, perché mi fa sperare che ci siano ancora dame capaci di farsi trattare da principesse. E di comportarsi come tali. L'idea di romanticismo di questo film è di porre l'amore sopra di tutto, ma con criterio. L'amore di Leopold per Kate non è mai cieco, folle o sconsiderato. È un amore generato da affinità approvate, evidenziate da un comportamento positivo e disponibile nei confronti del proprio prossimo. Paradossalmente, mi sembra la storia d'amore più normale che esista. Ripeto, escludendo il discorso 1800, è tutto assolutamente reale.
Citando il film, quando sono sul tetto a fare un cena romantica, non si può vivere una favola. Giusto, non una qualsiasi.
Si può vivere la propria favola.

L'immagine vincente

Se dovessimo raccontare a qualcuno della nostra vita, come ne parleremmo?

Oggi mi sono fatto in questa domanda in quanto sono in giro con una persona a cui devo far vedere come faccio il mio lavoro. Non è la prima volta che mi capita, e spero che non sia nemmeno l'ultima, dato che è quello che è stato fatto con me. Il fatto che ti vengano assegnate delle persone a carico a cui insegnare qualcosa è sempre una grande responsabilità, ma pone soprattutto l'accento su che cosa dire.
Non posso certo parlare della mia lunga, encomiabile quanto inesistente carriera, per cui magari devo ripiegare sulla vita personale. Chi sono, da dove vengo, cosa ho combinato (per ora). Lo starter's pack, insomma. Quando si racconta una vita bisogna però sempre stare tenti a dove si pone l'accento. Magari se si raccontano troppi dettagli da una parte si finisce per trascurarne totalmente un'altra, fornendo un quadro incompleto, per quanto magari volutamente mancante. Mi viene in mente una frase di una canzone di J-Ax (non certo un ottimo esempio), che a un certo punto dice
...e raccontarmi veramente, non l'immagine vincente che la gente vuole vendere di .
Tutti cerchiamo di vendere la nostra immagine al nostro prossimo. Il motivo per cui lo facciamo non è così scontato come può sembrare, ovvero l'impressione che facciamo o il rispetto a livello sociale. Penso che lo facciamo come atto di auto-affermazione. Chiunque abbia mai provato a raccontare la propria vita, anche a se stesso, pone sempre l'accento su tutta una serie di occorrenze che delineano un personaggio. Chi racconta le proprie sventure, ad esempio, tende a raccontare l'elenco delle cose che non vanno, evitando di citare ciò che invece funziona. In egual misura, chi deve "vendere" la propria immagine vincente, ometterà tutta una serie di dettagli capaci di sminuire la propria posizione. Questo permette a noi stessi di vederci con occhi diversi. Dal di fuori, in un certo senso. Perché nel momento in cui un pensiero lo si esprime in un'altra forma diversa dal pensiero stesso, scritta o verbale che sia, smette di essere un impressione e diventa un fatto. Questo non significa che sia automaticamente giusto o sbagliato, solamente che non appartiene più alla sfera soggettiva, ma diventa oggettivo. Questo significa che possiamo persino finire per credere a ciò che raccontiamo di noi stessi, convincendoci di essere, in funzione del racconto, vincenti o perdenti.
Mi rendo conto che possa sembrare assurdo, ma è un po' così. Pensateci bene: quando vi succede qualcosa di bello, come mai non vedete l'ora di raccontarlo ad altre persone, o ai vostri cari? Ovviamente perché se rimanesse solo nella vostra testa avrebbe un significato completamente diverso, e potrebbe essere un Boost per la vostra autostima solamente se poi gli altri, venendolo a sapere, ve lo facessero notare. Non che questa non sia un'altra tecnica di "oggettivare" l'immagine vincente.
Se raccontiamo qualcosa agli altri, bisogna sapere che di tutte le persone che verranno influenzate da questo racconto, la prima siamo noi stessi.

martedì 7 aprile 2015

Il cliente da lei chiamato...

Vi sono mancato in questi giorni di festa?

Mi sembra un bel modo abbastanza narcisista di cominciare. Voi non mi siete mancati, forse solamente per il fatto che buona parte non so chi sia di quelli che leggono questo blog. Però quelli che conosco sì, mi sono mancati. Quello che voglio dire è che mi sembrava inutile stare a scrivere degli articoli, o semplicemente dei pensieri, durante una festività. Mi sembra quasi un controsenso. Questo non è certo il mio lavoro, per cui non vedo perché dovessi scrivere in quei giorni.
Quello su cui voglio fare il punto è che se io fossi stato un lettore di questo Blog (cosa che in parte sono), durante le pause forzate tra un uovo di Pasqua e l'altro (bisogna pur scartarli e ci vuole tempo) avrei aperto il suddetto per vedere se c'erano aggiornamenti, e probabilmente ne sarei rimasto deluso nel vedere che era ancora tutto fermo a venerdì. Lo dico perché io stesso ho fatto così. Ovviamente non con il Blog, ma con altri siti che giustamente non si sono aggiornati per il weekend. In questo ragionamento non valgono i social network, essendo sempre e comunque privi di contenuti. Questo mi ha lasciato un sentimento di sconforto, quasi come se qualcuno stesse facendo male il suo lavoro.
Quando siamo diventati così esigenti e supponenti da pretendere che, pur se noi siamo in vacanza, internet deve continuare a muoversi? Perché pretendiamo che la tecnologia utile ci venga in soccorso sempre e comunque, anche quando non ne abbiamo reale bisogno? Esistono molte alternative, che con l'esistenza degli schermi portatili (da cui vi sto scrivendo, mea culpa) abbiamo imparato a mettere in secondo piano, se non dimenticare. Guardare i cartelli stradali quando Google Maps non funziona, ad esempio. Parlare con i commensali, oppure semplicemente godersi il momento, anziché fare un filmato che probabilmente non si riguarderà mai. Recentemente, uno studio psicologico a livello universitario ha dimostrato che ci si ricorda meglio le cose se, invece di filmare un evento, si sta ad assisterlo in maniera normale. D'altra parte, se andate a un concerto, agli altri non interesserà vedere un filmato in bassa definizione da lontano, mentre a voi non interessa rivederlo, perché tanto c'eravate.
Stiamo diventando sempre più dipendenti dalla tecnologia, e questo ha cambiato anche i nostri modi di fare. Una volta qualcuno ha detto che il problema di Internet non è il divertirsi, bensì il far vedere che ci si sta divertendo. Questo spiega anche il successo dei social network e delle foto di pantagruelici pranzi di Pasqua che si sono viste in questi giorni. E mangia e stai zitto.
Credo che dovremmo cominciare a prendere in considerazione un concetto di Slow Web, ovvero un distacco da ciò che sembra indispensabile ma in realtà non lo è. Infatti se noi siamo sempre disponibili al telefono, e reperibili in varie maniere, l'unica possibile conseguenza è di essere contattati a qualsiasi ora del giorno e per qualsiasi motivo.
Non ci si può lamentare tanto dell'invasione della privacy, se poi siamo noi i primi a concedere al mondo di contattarci in qualsiasi momento.

venerdì 3 aprile 2015

Gianni! L'ottimismo!

L'ottimismo è davvero il profumo della vita?

Un vecchio spot televisivo recitava proprio così, e oltre a numerose parodie, più o meno volgari, ci ricordava a tutti che sorridere è bello. Pleonastico, come concetto, ma al tempo stesso non molto condiviso.
L'autore si scusa moltissimo di aver usato il termine "pleonastico" al posto di "scontato" e promette di riportare il vocabolario alla biblioteca prima possibile.
Negli ultimi giorni una persona che stimo moltissimo (ma ovviamente non mi sogno di dirglielo) ha letto questo Blog, e ne è rimasto particolarmente e piacevolmente sorpreso. Lo ha definito spassosamente auto-cinico, e anche se non ho capito che significhi mi è sembrato una bella cosa. Se non lo è scrivetemelo nei commenti e ci saranno conseguenze. Mi ha anche detto che si vede che sono in pace con me stesso, il che è vero, quindi mi diverto a stare con me medesimo. La mia risposta è stato un imbarazzato "sono diventato un ottimista", verità, ma sulla quale affermazione ho ragionato. Personalmente, l'ottimismo mi ha cambiato la vita. Penso che per diventare ottimista bisogna prima essere un bravo pessimista, cosa che sono stato per lungo tempo. Il salto di qualità lo si fa nel momento in cui realizzi che non serve sperare che succeda qualcosa di brutto, perché le sfortune capitano, che uno le abbia desiderate oppure no. Il pessimista si limita a sottolineare l'ovvio, fa da spettatore nel processo attivo delle scelte. Che merito ne ha lui quando non avendo fatto nulla (ma avendolo previsto) le cose andranno male?
L'ottimista, invece, ci prova sempre, anche se non ci sono molte speranze. È sicuro di non sprecare energie per ciò per cui non vale la pena, mentre per tutto il resto può sempre uscire a testa alta dicendo "almeno ci ho provato". Sono come due amici al bar che adocchiano una bellissima ragazza. Uno non ci prova nemmeno, paralizzato dalla timidezza mascherata da "tanto si vede che non ci sta" (il pessimista), per cui ha 0% di possibilità di andare a segno. L'altro, magari sapendo pure che non è al suo livello (l'ottimista) ci prova comunque, e ha il 50% di possibilità di riuscita. Questa percentuale varierà, ma sarà sempre maggiore di 0.
Voglio lasciarvi con una cosa che ho imparato quando facevo skate. Quando cadevo, o sbagliavo un trick, mi era stato consigliato di sorridere, anche se non ne avevo il motivo ed ero proprio arrabbiato. Sembra una scemenza, ma funziona. Perché anche un sorriso che inizia come finto, porta il buon umore, e si considera ciò che ci affligge poca cosa. Sorridere ci fa sentire più forti dei problemi. E rende la vita profumata.

Non sapendo se ci saranno altri post prima di Pasqua (c'è veramente qualcosa di logico e programmato in quello che faccio?), l'autore vi augura una buona e serena Pasqua.

giovedì 2 aprile 2015

Nice guys finish last

È proprio vero che ad essere delle brave persone in un mondo di furbi ci si rimette?

Facevo questa considerazione ieri, quando un mio collega mi ha detto che non sono un ragazzo fico. Ora, non che la cosa sia di primaria importanza, ma sicuramente non si può assorbire questo come un complimento. Salvo proprio essere così tanto non-fico da non accorgersene nemmeno. Il fatto è che dalla sua descrizione ne usciva quella di uno stereotipato bravo ragazzo: alto, simpatico, educato e affabile, insomma il tipico ragazzo che piace alle mamme e molto meno alle figlie. Quel genere di quasi-adulto a cui il padre della fidanzata non guarda mai negli occhi prima che esca dicendogli "mi raccomando.." con quel fare severo e possessivo che conosce bene chi ha una figlia (io non ce l'ho, quindi lo immagino). Essere una persona buona, che non tenta di frega gli altri o i partner può essere una fregatura certe volte, sicuro, ma questo non implica che ci siano solo lati negativi. Certamente, qualcuno potrà obiettare che non si ha l'appeal di un ribelle o il fascino di un belloccio, ma in fondo anche il bravo ragazzo ha il suo fascino. Se piace tanto alle mamme, un motivo in fondo ci sarà. Perché che cosa vogliono le mamme per le loro bambine? In maniera prolissa si potrebbe elencare tutta una serie di caratteristiche, ma in una sola parola si può dire sicurezza. L'affidabilità, in una persona come in una automobile, se non è tutto è buona parte, di questo tutto. Il bravo ragazzo è quella persona matura che non dà mai preoccupazioni, e convince la gente a fidarsi. Quello che mi viene da pensare è che le mamme, avendo vissuto più delle figlie (e quindi avendo maggiore esperienza) non solo desiderano, ma pensano di sapere anche cosa sia meglio per loro.
Certo, a volte sarebbe bello essere un bad boy (possibilmente in maniera più intelligente di Balotelli), ma se ci si pensa bene l'entropia del sistema fisico "universo" tende a zero, facendo conservare l'energia che si trasforma in molteplici forme. Troppo difficile? Il karma ridistribuisce le energie positive a seguito di vibrazioni positive. Troppo spiritual? Nessuna buona azione resta impunita.
Penso che alla fine essere delle buone persone sia un po' come studiare. Costa fatica, ma se uno ha delle buone capacità deve metterle in pratica, seppur si tratti di un investimento a lungo termine. Probabilmente i furbi arrivano primi, in una gara, ma i bravi ragazzi vincono il campionato.

mercoledì 1 aprile 2015

The Amazing Spider-Man

Ho visto ieri sera l'ultima produzione del franchise una volta Marvel e ora Sony, ovvero The Amazing Spider-Man.
A parte il fatto che l'ho apprezzato molto lo svecchiamento che è stato dato al titolo, che dai tempi di Toby McGuaire è stato reso molto più simile al fumetto, cosa sinceramente di cui il film aveva bisogno. L'unica cosa che non capisco è l'utilizzo di Andrew Garfield come protagonista principale. Non è affatto lo sfigatello che dovrebbe essere Peter Parker, mentre ho apprezzato molto Emma Stone nella parte di Gwen Stacy. Nonostante si vede benissimo che non ha 17 anni, le sue reazioni e la parte interpretata sono magistrali.

Lui è troppo fico per essere Peter e lei troppo vecchia per essere Gwen,
ma in qualche modo funzionano assieme.

È proprio a loro due, ovvero Peter e Gwen e voglio arrivare. Alla fine del film infatti, come in ogni buon Spiderman, Peter dice alla sua compagna di turno che non si possono più vedere, in quanto la sua posizione da supereroe non permetterebbe a lei di vivere una vita sicura. Quando lui le dice che non può e via dicendo, lei si gira e se ne va. Tempo di esecuzione: 0.7 s. Nella vita reale è così, ad una risposta del genere non stai ore a guardarti negli occhi, anche se non sai il perchè. Penso che sia proprio questa la grandezza di Spiderman. Forse proprio per questo viene chiamato the Amazing Spider Man. Ovvero la capacità di separarsi dai propri cari per poter permettere a loro una vita tranquilla. Il sacrificio, l'impegno la consapevolezza che da grandi poteri derivano grandi responsabilità (che tra l'altro all'interno del film è stato parafrasato in maniera pessima, ma in qualche modo andava pure detto). Insomma,Amazing  come lo può essere chiunque.


Dedico questo post al manico in plastica della mia Moka, tragicamente scomparso questa mattina quando pensavo di aver caricato l'acqua. Non lo avevo fatto. Colpa mia.

Il bivio del giocatore

Cosa succederebbe se il cavallo su cui avete puntato tutto perdesse?

Ieri sera mi facevo questa domanda, e sinceramente non sapevo bene come rispondere. Ho parlato con una amica che, come spesso succede nella vita, ha fallito un esame importante, modificando i suoi piani futuri. La vita che si era programmata da qui a qualche mese, insomma. Non che fosse certo considerabile un lungo termine, ma non si possono certo fare piani quinquennali quando non sai che ne sarà della tua vita di lì a 3 mesi. Insomma, i suoi piani erano stati disattesi.
Da qui la metafora del giocatore. Anche a me è capitato di pensare di aver sbagliato "cavallo" su cui puntare, ma mai in maniera cosi grave da perdere tutto. Ne abbiamo visti tanti, nei film e anche nella vita, di fallimenti e sempre abbiamo guardato all'immediato. Perché quando le cose non vanno ci si trova davanti a un bivio: continuare ad andare avanti, oppure prendere la strada in discesa. Non parlo necessariamente delle conseguenze più nefaste di un fallimento (farla finita), quanto la concezione più generale del lasciarsi andare allo sconforto. Il problema che mi sembrava di capire è di carattere temporale, più che emotivo. Ho sempre considerato il tempo come lineare, una unità di misura standard è democratica. Un'ora in compagnia di una bella ragazza dura esattamente come un'ora chiuso in un ascensore con un muratore che non si sente molto bene di stomaco. Sempre 60 minuti, anche se in un caso vola e nell'altro si contano i secondi. La democraticità del tempo impone che passi incessante. Salvo apocalisse non previste dai giornali odierni, è sicuro che l'orologio continuerà ad andare avanti, e l'unica condizione per non arrivare a vivere tra un'ora è non esser vivi (banale). Questo significa che il tempo passa anche se noi non lo vogliamo, sempre in maniera uguale.
Di conseguenza pure chi pensa di aver puntato sul cavallo sbagliato, in quanto vivo, è costretto ad andare avanti nel tempo, che lo voglia oppure no. Perché quindi lasciarsi andare allo sconforto se poi non risulta esserci una fine concreta all'orizzonte? Prima o poi le motivazioni che hanno portato allo sconforto verranno meno e bisognerà andare avanti comunque. Allora si capirà che non era il caso di abbattersi, quindi era meglio cercare di rialzarsi fin da subito.
Perché se hai veramente toccato il fondo si può solo risalire. E se non lo hai ancora toccato (può sempre andare peggio) vuol dire che le cose che vanno male sono in quantità limitata rispetto alla sfera di interesse.