mercoledì 30 settembre 2015

Conversazioni ipotetiche

Quante volte ci è capitato di trovare una risposta perfetta per controbattere un'affermazione quando ormai è troppo tardi?

A me moltissime. E non parlo solamente dei casi per me molto isolati in cui la risposta geniale balena nel nostro pensiero pochi secondi dopo, ma quando ormai il tempo per rispondere è già passato, intendo proprio quando, tornando a casa, continuando a pensarci, troviamo la risposta perfetta. Peccato che ormai sono passate delle ore e siamo da soli sotto una doccia. O da qualsiasi altra parte.
Non penso di essere da solo a rivedermi ipotetiche conversazioni in testa, anche dopo che sia passato del tempo da quando siano realmente avvenute. Lo dico non in funzione dei miei poteri di telepatia con gli altri abitanti di questo pianeta, quanto più per il fatto che sempre più gente mi fa notare che quello che scrivo spesso capita anche a loro non che sia un bene per voi, io mi farei controllare. Il problema è che per avere la risposta pronta, bisogna possedere alcune caratteristiche: la spontaneità di dire la cosa giusta nel momento giusto non può essere solo frutto della genialità spontanea di una persona, quanto più può essere affinata con l'esperienza. Il genio, che non sono io ma quello di cui ho già parlato in un altro post, comprende tra le sue caratteristiche la rapidità di esecuzione, e certo questa non deve mancare, ma la capacità di pensare velocemente, quindi a monte dell'azione,  si affina con l'esperienza.
Esatto, sto dicendo che quelli che hanno la risposta pronta ad ogni evenienza, spesso sono tali perché gli è capitato molte volte di non sapere cosa dire. In poche parole, hanno avuto modo di fare di necessità virtù. Aver passato le ore a scervellarsi pensando a possibili scenari, risposte o espressioni che si sarebbero dovute usare in un determinato contesto, è un allenamento per l'immaginazione e la concentrazione da usare per generare risposte fantasiose. Non arriverò al punto che la fantasia e la spontaneità si possono allenare, perché sarebbe sbagliato non considerarne la parte naturale, posso solamente dire che trovarsi in determinate situazioni per più di una volta aiuta la naturalezza con cui le si affronta. Un po' come fare sempre la stessa cosa la rende un automatismo che ci permette di focalizzare la nostra concentrazione solamente sulle anomalie.
Penso di avere una risposta pronta, anche in funzione di quello che mi capita, anche se è sempre una bella soddisfazione dire la cosa giusta al momento giusto. Altrimenti la prossima volta andrà meglio.

Quando sarò grande..

Cosa vuoi fare da grande?

A tutti, presto o tardi, è stata posta questa domanda, e tutti l'abbiamo fatta almeno una volta. È un qualcosa di inevitabile, come che oggi qualcuno ci abbia già chiesto "come va?". Ma come al solito in questo blog, non ci soffermiamo sulla superficialità della cosa, cerchiamo di capirci qualcosa di più, di questa domanda.
Lo dico perché l'altro giorno l'ho detto io, che cosa avrei voluto fare da grande. Ora, non è che io sia proprio piccolo, in fondo ho già raggiunto un discreto grado di autosufficienza, che mi permette di vivere, mangiare, avere una casa, un lavoro e tante passioni, senza dipendere da qualcuno. Non parlo solo di indipendenza economica dai genitori, traguardo tanto agognato durante gli anni dell'università, ma di vera e propria emancipazione. Quindi quando l'altro giorno ho detto che "da grande farò.." mi si sono ripetute in testa le parole che avevo appena detto. Perché sono già grande, per certi versi.
All'inizio è sopraggiunto un sentimento di sconforto. Sì, perché desiderare qualcosa di diverso, è un po' come considerare deludente, se non un fallimento, ciò che si sta facendo, la situazione che si sta vivendo. Poi mi sono detto che in realtà certe cose hanno bisogno di tempo, e ogni scelta è frutto del momento, quindi poteva essere naturale, pur essendo già grande, desiderare di più. Infine il mio ragionamento si è spostato sull'oggetto del desiderio, il vero punto cruciale del pensiero.
Quando siamo piccoli, la domanda posta all'inizio è una indicazione di cosa ci piacerebbe diventare come persone in divenire, per cui prettamente lavorativa. Astronauta, scienziato, presidente degli Stati uniti, sono tutte risposte che ci definiscono per come siamo, sognatori bambini o pratici infanti già grandi. Ma quando si cresce, e il nostro percorso di crescita professionale comincia a delinearsi per davvero, tutto prende un altro significato. Quando l'altro giorno ho parlato del desiderio futuro, non parlavo di una realizzazione professionale, che dal desiderio sta diventando sempre più concreta, ma di una realizzazione umana. Una moglie, dei bambini, una famiglia. Questa è la mia personale idea di realizzazione come persona, la costruzione di un nucleo familiare che valga più della somma dei singoli individui che lo compongono. Non si tratta di un desiderio assurdo, me ne rendo conto, ma è qualcosa per cui si cominciano a buttare le basi in questa fase della mia vita, un po' come la scelta delle scuole è stato propedeutico al mio avanzamento professionale. Certo, con tempistiche non certe anzi molto aleatorie, ma già che ci sia un desiderio, seppur ancora base, è già tanto. Perché sapere dove andare, pur essendo ancora fermo sulla casella del via, è cento volte meglio che avere le energie per partire ma non sapere in che direzione.
Da grande voglio avere una famiglia, e dico bene ad usare l'espressione da grande.

giovedì 24 settembre 2015

Sì, ma guarda avanti

Che fai a capodanno?

Questa semplice domanda, assume varie sfaccettature in funzione del periodo dell'anno in cui viene posta. Se siamo parlando di una conversazione piacevole, magari attorno ai primi di dicembre, trattasi di una domanda circostanziale, quasi ai livelli di "come stai?" oppure "dove sei stato in vacanza?". Ma posta in un qualsiasi periodo dell'anno, è una di quelle domande che lascia abbastanza attoniti. Sì, perché non è mai qualcosa che uno considera con più di un mese di anticipo, pur avendo la necessità, se si desidera festeggiare il nuovo anno via da casa, di prenotare per tempo che tanto è già tutto pieno. Sapere cosa fare con largo anticipo permette di organizzare meglio, trovare le offerte migliori, ma spesso ci si scontra con le necessità della compagnia. Sì, quel genere di compagnia per cui c'è sempre qualcuno che impone il veto su ogni possibile alternativa, da quello che non è che non sa sciare, non vuole che tu ci vada, a quello che nella maniera più assoluta non riesce perché proprio in quei giorni non ha le ferie poi scopri che ad aprile va in Nicaragua per un mese e mezzo.
Sarò io, ma sono arrivato al punto in cui sono addirittura disposto a viaggiare da solo, pur di fare qualcosa. Se no ci si ritrova sempre a 4 giorni dopo Natale a cercare una meravigliosa offerta last-minute che ci salverà e saremo tutti felici. No, non la trovereste a meno di vendere un rene. Per cui quest'anno ho deciso di gestirmi da solo, ho trovato un posto dove mi piacerebbe andare a fare le vacanze invernali (montagna) una attività che mi occupi le giornate intere (sci) e una organizzazione che mi permetta di fare ciò che voglio. Un po' triste? Forse sì, ma sono rimasto scottato troppe volte da quelli che dovrebbero organizzare vacanze da paura e poi non se ne fa nulla, o peggio, le fanno ma non ti fanno sapere niente fino a quando ormai è tardi. Per cui quest'anno sono io a guardare avanti, che so già cosa farò nelle vacanze di natale, perché se ci si fa prendere la paura che possa succedere qualcosa, che la prenotazione potrebbe non avere mai luogo, che possa essere brutto o altri mille motivi, si diventa come chi, per paura di spendere, non investe i propri soldi, o non esce la sera. Stavolta mi voglio buttare, e non da una montagna come temono alcune persone (anche se verrà fatto comunque), voglio organizzarmi e passare una serie di giorni piacevoli facendo qualcosa di diverso. Se poi vedrò che mi annoio, o che mi farebbe piacere compagnia, almeno avrò delle informazioni in più.
Sempre meglio che restare a casa a dire che l'anno prossimo sarà diverso e mi organizzerò per tempo.

mercoledì 23 settembre 2015

C'è gente strana in giro

Ah, la settimana della Moda.

Tutti ne sentono parlare, tutti sanno che esiste ma io non so mai quand'è. Sta di fatto che spesso, e mi è già capitato, lo scopro che la settimana della moda è già iniziata. Lo so che questa industria multimilionaria basata sul niente dovrebbe catalizzare la mia attenzione più di qualsiasi altra cosa, ma non ci posso fare nulla, ho la testa per aria. Insomma, secondo una recente scoperta di ieri sera, pare che questa settimana siano i fatidici 7 giorni che portano poi alle più importanti sfilate delle grandi griffe nel weekend. Accidenti non mi sono preparato. A dir la verità mi era sembrato strano essere invitato ad un aperitivo ieri sera in un negozio di moda, ma quando mi arriva un invito nel genere non sto a farmi troppe domande. Insomma, il fascino di questi 7 giorni che compenetrano il centro della città sono un'esperienza che solo i milanesi possono capire. Certo, voi potrete osservare che ogni settimana a Milano è la settimana di qualcosa a dir la verità potreste anche obiettare che non sono milanese, ma potrei prendermela e non parlarvi mai più, ma se veniste in città per anche una volta sola capireste. Come direbbe un mio amico, "stà gente strana in giro".
La moda, negli ultimi decenni e non sono certo la persona pi affidabile per parlarne, siamo franchi, si è caratterizzata per gli eccessi, per gli abiti futuristici, per i dettagli che saltano subito all'occhio e per un modo di vestire che nessuno sano di mente avrebbe mai il coraggio di indossare nel mondo reale. Poi, certo, quello che si vede sulle passerelle deve essere di ispirazione per chi lancia le mode urbane, anche se non oso pensare che cosa potrei fare a chi ha avuto la pensatona di dire "proviamo a fare il risvoltino ai pantaloni". Probabilmente non voleva solo macchiarsi i pantaloni di fango. Personaggi improbabili quindi si aggiravano ieri sera per le vie del centro, dai pennelli con i capelli solo sopra a improbabili giacchetti di pelliccia passando per chi con gli occhiali da sole qui fa buio alle 19 andava a sbattere contro gli astanti. Tutti rigorosamente senza i calzini, che sono arrivato a considerare il male dei nostri tempi.
L'impressione che però si aveva, era che in fondo, ieri sera, tutto fosse concesso. Ho visto scarpe che neanche in un film futuristico di Kubric si vedrebbero, e gente con magliette così lunghe che forse erano dei vestitini della sorella piccola questione di punti di vista. In un certo senso però, questo era bello. Ieri sera, in giro per Brera, non c'era qualcuno vestito male. Certo, magari lo era per me, ma in assoluto, in una manifestazione dove gli eccessi sono tollerati, se ti metti le ali sulla schiena e giri con un boa di piume, non sei certo a-normale. Lo saresti nei restanti 364 giorni dell'anno, questo è poco ma sicuro.
Per molti vestirsi in una certa maniera è un modo per esprimersi. Io considero il mio cercare di vestirmi bene (e per bene intendo in giacca, non certo con cose griffate) come rispetto per la persona che mi sta di fronte, non solo qualcosa per definire me. Perchè il problema di chi cerca di comunicare qualcosa tramite l'abbigliamento è che spesso lo utilizza come un sistema molto forte per trasmettere tutto ciò che è, lasciando poco alla sostanza che c'è dietro. Si forma una spessa patina di apparenza che non giustifica una carenza di personalità. Ci si può esprimere tramite i vestiti, avere un proprio stile e ad esso collegato un atteggiamento, ma l'esperienza insegna che ciò che si discosta dal classico potrà piacere o meno, ma sarà sempre considerato "diverso". Con ciò non voglio smorzare gli altrui entusiasmi sullo stile, solo dire che per gli eccessi c'è un momento e un luogo, quindi fuoriuscire da queste due restrizioni significa fare scelte di cattivo gusto. Ma poco interessa.
Tanto lunedì sarà la settimana di qualcos'altro.

martedì 22 settembre 2015

Questioni di dialettica

Perché quando diciamo qualcosa, specialmente con le donne, finiamo sempre per essere fraintesi?

Da un po' di tempo, ho fatto del parlare il mio lavoro. Non riguarda solamente quello che viene scritto su questo blog, ma il mio vero e proprio lavoro. Certo, la maggior parte di voi potrà obiettare che non mi spacco la schiena durante il giorno, in realtà è un lavoro abbastanza complicato. Non si tratta di convincere le persone a fare ciò che tu vuoi, come io stesso pensavo all'inizio, bensì farle arrivare ad un consapevole convincimento. Mi riferisco al fatto che devo fare in modo che la gente arrivi al mio stesso punto di vista, ma tramite le loro motivazioni. Questo non comporta raggirare le persone, bensì interpretare come pensano, e fare in modo che tramite le loro deduzioni arrivino al medesimo risultato. Il grosso vantaggio o svantaggio di questa pratica, che viene ovviamente affinata nel tempo, è che è applicabile anche nella vita di tutti i giorni. Ovviamente, dopo le prime volte che si raggiungerà il risultato sperato, si finisce per pensare di riuscire a convincere chiunque di qualsiasi cosa. Ma questa è una convinzione che dura ben poco, scontrandosi molto spesso con l'incompatibilità di pensiero di alcune persone.
Quello che però mi ha sempre colpito, è il discorso riguardante come una stessa frase può essere posta e recepita in diversi modi. Da quando ho cominciato a fare più attenzione alle singole parole che uso, è come se avessi buttato via il dizionario dei sinonimi e dei contrari. Se uso un termine è perché quella determinata parola ha un determinato impatto, piuttosto che un'altra che significa la medesima cosa. Perché la verità è che sinonimo significa nome simile, derivando dal latino simil nomen, non quindi uguale. L'autore richiede un piccolo applauso, avendo sempre preso 3 in latino per tutto il liceo. Ma pur cercando una certa quale scientificità nelle parole che vengono usate, spesso è sempre associata a una determinata interpretazione. A chiunque abbia parlato con una donna, non per essere sessista, sarà capitato che dei significati possibili di una determinata espressione, essa capisca semplicemente esclusivamente quello peggiore, che ci mette più in difficoltà. Questo non perché le donne siano esseri malvagi, che tendono a capire solo quello che vogliono, bensì perché sono più attente a queste determinate sottigliezze, alle spaziature che si nascondono dietro ogni singola parola di ogni frase. Si può provare quindi a cercare di spiegare le cose in maniera semplice, evitando i doppi significati che possono essere inseriti all'interno della frase, ma questo non impedirà un eventuale ascoltatore di effettuare una interpretazione soggettiva. Rimane quindi sempre la possibilità di essere fraintesi, in quello che si dice. Un po' come fare degli esempi con come soggetto degli animali (furbo come una volpe, fedele come un cane, col maiale non me ne vengono), magari vengono citati per descrivere buone qualità di una persona, ma si tiene conto solamente di un aspetto, quello positivo, che alla pretesa di fare ignorare gli altri aspetti negativi.
In realtà un modo per evitare tutto questo ci sarebbe, ma non è possibile nella vita reale non prendere mai una posizione determinata e decisa su tutto. È giusto, oltre che corretto, nei confronti di chi ci sta vicino, esprimere il nostro parere. Ma certe volte, dobbiamo pensare bene alle conseguenze di quello che stiamo per dire. Cioè non fare come me.
Pensarci prima di aprire la bocca.

lunedì 21 settembre 2015

Il valore delle cose

In funzione di cosa possiamo stimare un valore economico delle cose?

Questo argomento, che riguarda tanto il commercio quanto la vita di tutti i giorni, è una di quelle idee che rimangono latenti nella mia testa per molto tempo, fino a che un evento scatenante non provoca la formazione di un pensiero definito, o che vuole sembrare tale. La verità mi si palesa davanti al naso, e come una rivelazione, un'epifania nascono le idee brillanti che compongono questo tanto vario quanto geniale blog. Non mi risulta che questo blog sia particolarmente vario. Facciamoci delle domande. Insomma, certe volte mi ritrovo ad avere un pensiero, un'idea in fase embrionale per molto tempo prima di pensarci sopra per addirittura 5 minuti fino a partorire un concetto più o meno condivisibile. Ma in fondo è così che nascono le opinioni, no?
Tornando a noi, questo weekend è successo che la dea bendata ha deciso di scegliere me, e non intendo quell'altra cieca che mi ha scelto, ma proprio quella bendata, che era un po' che non si faceva sentire e quindi era in debito. Si è palesata sotto forma di un oggetto di design, per arredare la casa, che mi è stato regalato. Piovuto dal cielo, si potrebbe dire. Incuriosito dall'oggetto in sé, e avendo anche poco gusto per questo genere di oggetti di desaign, mi sono informato sul valore economico della mia fortuna, così, per capire. Viene fuori che il valore dell'oggetto era decisamente più alto di quello che sarei disposto a pagare per un oggetto del genere in una nota catena di svedese di arredamento, all'incirca, per farvi un'idea, di un paio di zeri. La cosa mi ha dato da pensare. Sì, il primo pensiero è stato "sono ricco!" e il secondo come non romperlo.
Ho cominciato a ragionare su come il mercato, ma più di questo noi stessi attribuiamo un valore economico oggettivo a suppellettili soggettivamente misurabili. Il valore economico viene associato alla composizione dei materiali e alla manodopera sicuramente, ma chiunque sappia cos'è una Kelly di Hermes, sa che nella cifra prima del simbolo della valuta, molto spesso ci sono, più che queste due cose, dinamiche di Brand, altro che valore effettivo. In altre parole, il marketing impone che per fare risaltare un prodotto come migliore, deve avere un prezzo sensibilmente più alto degli altri, per renderlo esclusivo. Si chiama Premium price, per gli amanti della nomenclatura anglofona. Per cui, tornado al concreto, mi sono chiesto se ciò che avevo tra le mani fosse realmente un tesoro, tale da giustificare il suo valore economico, oppure no, come un calciatore sopravvalutato. La conclusione a cui sono arrivato è stata la seguente: purtroppo gli oggetti di design sono entità ordinarie in cui la soggettività del gusto viene spacciata per oggettiva. Si fa credere che qualcosa che piace a qualcuno sia oggettivamente bello, a tal punto da farne assumere un maggiorato valore economico, spesso a discapito dell'ergonomicità o della funzionalità. Chi ha delle brocche dell'acqua di design sa di cosa parlo. Non possiamo quindi cercare di combattere un lato economico evidente e immutabile, ma il fatto che qualcosa possieda questo valore non rende automaticamente un oggetto di valore. Un po' come dire che non è perché costa tanto che vale tanto, a tal punto che si raggiungono prezzi di mercato altissimi per oggetti inutili. Ma questi due valori vanno ben distinti, perché associarli sarebbe come cercare di forzare il soggettivo nell'oggettivo.
La conclusione a cui sono arrivato, è stata quella che per la mia piccola fortuna sarei stato disposto a cercare un compratore, ma nel caso non lo avessi trovato mi sarei tenuto (volentieri) un bell'oggetto. Ma non lo venderei per i soldi, ma per darlo sotto lauto compenso a chi possa apprezzarlo più di me.

venerdì 18 settembre 2015

Ode alla cicala

Non penso sia ormai più un segreto che giro molto in macchina per lavoro. Non penso che nemmeno sia un segreto che sono sempre da solo, in macchina, e quindi la mente viaggia, prendendo direzioni a volte simili, a volte diametralmente opposte al corpo. Per cui tutto quello che vedo o sento mi dà da pensare, durante il mio tragitto quotidiano. Spesso è proprio questo che mi fornisce l'idea per il post che dovrebbe essere giornaliero ma ormai è quasi settimanale. In ogni caso, oggi sono passato davanti ad un cartellone pubblicitario, il cui gusto è sicuramente dubbio, ma trattandosi di commercio è giusto farsi pubblicità. Si tratta della pubblicità del cosiddetto "Outlet del funerale" lo so, non è il massimo di cui parlare, ma è evidente che sono un po' a corto di idee dove troneggia una frase:
Vita da cicala? Nessun problema!
Il significato della réclame era tantissimo che volevo usare questa parola, sa un sacco di nonna, riguarda la possibilità di avere una bella cerimonia anche non avendo molti soldi da parte, citando l'esempio celebre della storia della cicala e della formica.
A me questa favola non è mai piaciuta. Innanzitutto perché non è che ci fosse molta azione, ma soprattutto perché mi sono sempre chiesto come possa piacere una favola che finisce con un io però te l'avevo detto. Perché, diciamocelo, si tratta di una storia che prende in considerazione solo alcuni aspetti della vicenda nella sua interezza, ma considerarla nell'insieme permette di notare sfaccettature molto interessanti. Ma andiamo per ordine.
La storia originale racconta di come una cicala si diverta per tutta l'estate, mentre la formica si spacca di fatica a mettere via provviste per l'inverno. Arrivato il fatidico inverno, la cicala soffre mentre la formica sopravvive in quanto previdente. Bon. Niente da eccepire. Un comportamento irresponsabile porta a nefaste conseguenze. E fino a qua siamo tutti d'accordo. Ma non finisce qui. La cicala infatti viene presa da esempio perché il suo atteggiamento è più in vista di quello di una qualsiasi formica. Le loro vite sono simili, a differenza che la cicala è libera, non intrappolata in volontarie gerarchie di gruppo. Si gode la vita quando può godersela, e questo è oggettivo. La formica d'altro canto, passa il periodo più bello dell'anno a sacrificarsi, nemmeno solo per sé, ma anche per il team. Le formiche infatti non vivono un anno, e quello che mettono da parte lo fanno per gli altri, più che per sé. In una versione reale, entrambi muoiono prima dell'inverno, a differenza che almeno la cicala ha fatto una bella vita.
Il secondo aspetto interessante riguarda il secondo carattere della storia, ovvero la cicala. Non mi risulta che le cicale siano estinte, quindi probabilmente anche loro trovano un modo per sopravvivere all'inverno. Magari, e dico magari, anche loro mettono da parte delle provviste, ma non ne fanno una ragione di vita come per le formiche. Non vivono per lavorare, ma lavorano per vivere. Il comportamento della formica è giusto, ma limitato nella sua prospettiva. La cicala, magari inconsapevole, ottiene un risultato migliore, sapendo ben bilanciare il divertimento e la gioia di vivere con il lavoro. Tutti gli altri insetti si chiederanno "ma come fa la cicala a sopravvivere che sembra sempre a divertirsi?", mentre della formica si chiedono "perché sta sempre a lavorare se poi non ne ha così tanto vantaggio?". Si tratta di dedicare le proprie energie, il proprio tempo alle cose che meritano, in giusta quantità. Altrimenti ci si rischia di perdere qualcosa.
Tranquilla cicala. Ci vediamo in primavera.

mercoledì 16 settembre 2015

Toccare il limite

Oh, ho pensato che è un sacco che non scrivo un post motivazionale, e dato che mi piace tanto parlare degli altri, e delle cose in generale, sono qua ad esaudire questo mio piccolo desiderio.
Quello di cui voglio parlare oggi, è il frutto di una discussione che ho avuto ieri con una persona molto importante. Si parlava delle delusioni che ti possono lasciare le persone, nei rapporti che non vanno come credi. Questo mi ha dato molto da pensare, anche in funzione dell'atteggiamento positivo e ottimista che cerco di avere nei confronti di ciò che mi succede. Questo perché molto spesso, rimanere male nei confronti di una persona, significa avere desiderato di più rispetto a quanto questa persona ti può dare. Certo, la delusione e sentimento più facile da trovare in queste situazioni, ma non è il più giusto. Dobbiamo infatti considerare che ogni cosa possiede un proprio limite. Questo limite è dovuto alle capacità, alle proprietà intrinseche, e il background caratteristico delle persone che ci stanno di fronte. Rimanere delusi, in un certo senso, è quindi come aver desiderato qualcosa che non si poteva ottenere. Il mio atteggiamento ottimista nei confronti della vita, e di queste situazioni, consiste nel considerare proprio che ogni cosa possiede un proprio limite. Questo mi porta a non desiderare di più di quello che mi viene dato. Se so che una persona mi può dare fino a 5, non sto a chiedere che mi dia 7 o addirittura 8, bensì mi accontenterò del fatto che mi abbia dato addirittura fino a 5.
Il fatto che ogni cosa, o persona, abbia un proprio limite impone la considerazione anche che noi stessi abbiamo un limite. Ciò che mi sembra molto interessante, è che molto spesso neppure noi lo conosciamo questo limite. Pensiamo di poter fare delle cose delle quali non magari non saremmo neanche in grado, tutto in funzione dell' autostima e della considerazione che noi abbiamo di noi stessi. Ho sempre pensato che diventare grandi significasse, in maniera molto semplicistica, non farei mai capire agli altri quanto ci si può arrabbiare. Non è del tutto vero, almeno non è del tutto completo. Diventare grandi significa non svelare le proprie carte troppo velocemente, in modo da far conoscere subito agli altri qual è il nostro punto di rottura. Per questo, certe volte è anche necessario fingere. Ma non fingere di saper fare qualcosa che non sappiamo fare, bensì dare l'impressione di saper fare qualcosa che non abbiamo mai provato a fare, in modo da auto definirci.
Una volta, parecchi anni fa, mi sono trovato nella condizione di dover cambiare una gomma di una macchina senza averlo mai fatto. Il risultato è stato che quando mi è stata posta la fatidica domanda sulle mie capacità, ho risposto in maniera affermativa, pur non avendo esperienza in merito. Di conseguenza ho affrontato il compito, seppur titubante, in maniera egregia, spostando le mie competenze, è il mio limite su un punto oltre il quale non pensavo di andare.
Tutti noi possediamo delle capacità che non sappiamo di avere, ma solo metterci in gioco ci permette di scoprirle, e quindi di essere apprezzati per queste. Senza però svelare tutte le nostre carte del mazzo troppo presto.

lunedì 7 settembre 2015

Si fa così, per dire..

Oggi voglio parlare delle frasi fatte. Anzi, per essere più preciso vorrei parlare delle frasi ovvie descrittive.
Mi spiego ancora meglio, dato che per me non è facile tradurre in lettere quello che mi passa per la testa finendo sempre per dire la cosa peggiore nel modo peggiore. Mi hanno sempre colpito quelle frasi ad effetto che spesso si dicono, durante rapporti sociali, che ad una seconda analisi risultano completamente prive di significato. L'esempio più classico che posso fare per farvi capire è la seguente espressione, che tutti abbiamo sentito un milione di volte:
Io sono sempre calmo/a, ma se mi arrabbio...
Mi fa sorridere il modo in cui la gente la dica, come a voler incutere una certa qual paura, un certo rispetto da parte di chi ascolta. Come a voler indicare che ci si può trasformare in una orrenda bestia, una furia buia in qualsiasi istante. Bene, normalmente ci si ferma qui. Ad una seconda occhiata, ragionando non solo sulla semantica ma anche sul significato della frase, ci si accorge che non possiede un senso vero e proprio. Qualcuno che si arrabbia, infatti, esce sempre di sé. Chi sa gestire le proprie difficoltà con calma invece non si può certo definire una persona arrabbiata. Chiunque, quindi, nel momento di una arrabbiatura, smette di essere calmo, facendo perdere significato alla frase. In realtà una frase che dovrebbe averlo, un significato, e non ce l'ha, possiede un risvolto interno che permette di leggere tra le righe una certa qual padronanza del linguaggio carente con relativa mancanza di introspezione.
Se ci si pensa bene, sono molte le frasi che sentiamo tutti i giorni sui generis, ma per abitudine, poca attenzione o mondanità non ci facciamo molto caso. Tendenzialmente, chiunque descriva se stesso finisce per utilizzare espressioni di questo genere, perché, diciamocelo, tutti vogliamo sembrare più complicati di quello che siamo. E mi ci metto io in primis a dire questo, scrittore, blogger e mecenate romanticamente tormentato. Ci piace raccontare di noi una storia vincente, in cui niente viene dato per scontato, a denotare un'unicità coperta da una lieve foschia di mistero. La verità è che molto spesso ci somigliamo, quindi alcuni comportamenti, abitudini e modi di fare risultano essere sovrapponibili. La maturità sta nell'accetare che esistano persone che si comportano come noi. Magari non sarà una moltitudine, ma è molto difficile essere unici in qualcosa di così generico.
Questo non significa che ci siano caratteristiche peculiari che ci distinguono e ci rendono tutti diversi come fiocchi di neve, anzi, solo che una determinata caratteristica, che può essere insieme alle altre costituiva di qualcosa di unico, si possa trovare identica anche in altre persone.

mercoledì 2 settembre 2015

Video killed the radio stars

Oh, finalmente un attimo di pace per poter scrivere. Sono stato super impegnato nelle ultime 36 ore, a tal punto che salvo le funzioni fisiologiche e il lavoro non sono riuscito a fare altro. Grazie per l'interessamento sulle funzioni fisiologiche ma non approfondirò l'argomento. Adesso invece riesco a prendermi quei 20 minuti necessari per scrivere il post del giorno, anche perché, per una volta che ho qualcosa da dire, mi sembra giusto parlarne.
Oggi voglio parlare della Radio. Mi sento particolarmente tirato in causa, in quanto la mia famiglia ha contribuito in maniera attiva alla realizzazione della prima radio ad opera di un certo Guglielmo Marconi: il mio bisnonno infatti trasportava le apparecchiature di questo signorotto da una collina all'altra per fare le prove di trasmissioni. Eh, sì, c'è una parte di me in questo grande sistema che permette di condividere e diffondere informazione e intrattenimento. Purtroppo la nostra generazione, e per "nostra" intendo quelli nati dalla seconda metà degli anni 80 in poi, non abbiamo mai avuto un grande rapporto con questo mezzo di comunicazione. Sarà dovuto al fatto che siamo stati abituati ad avere tutta la musica che volevamo a disposizione, con le cassette prima, poi i cd e infine la musica digitale, oltre che quando siamo diventati sufficientemente grandi da apprezzare la musica non era già più di modo, ma non è un qualcosa che ho mai considerato come un intrattenimento primario.
Come ogni cosa, nel momento in cui riscopre una risorsa e la fa propria, si tende ad interiorizzarla molto di più: nel mio lavoro sono spesso in macchina, e nonostante abbia a disposizione 10GB di musica di ogni genere e tipologia da Bach a Skrillex, ci passo talmente tante ore che ascoltare le stesse canzoni diventa ripetitivo. Per questo ho cominciato ad ascoltare la radio. Finendo per trovarne una che mi piace che adesso seguo tutti i giorni. Perché si viene a creare un rapporto con i conduttori che non esiste in nessun altro mezzo di trasmissione e di intrattenimento. Come diceva una vecchia canzone, la radio libera la mente, perché non impegnando altri sensi oltre l'udito, non costringendo a stare fermi come la televisione, la radio può essere ascoltata mentre si fanno le proprie cose, e soprattutto senza smettere di pensare. Somiglia molto di più a un dialogo, in cui le parti non comunicano in maniera bilaterale, ma c'è scambio di informazioni. Ascoltandola in maniera regolare inoltre, è un po' come entrare a far parte del gruppo, si ride alle battute "private", quelle che conosce solo chi sente da molto il programma, si imparano ad apprezzare e stimare i conduttori sia a livello professionale che umano.
In più si è sempre molto aggiornati sul mondo della musica, dello spettacolo e l'informazione in genere. Tutto questo non si ha con la televisione che ho in casa, non sono di quei fenomeni hipster che la giudicano mondana, perché la TV è un manifesto, che viene guardato da noi senza dire altro, non è interattivo ed è stato pensato per farci fare la minore fatica possibile per raggiungere lo scopo altrui. La radio invece arriva dalla gente, è disordinata, caotica, ma somiglia molto di più a una chiacchierata al bar che un manifesto. Le notizie non è detto che siano precise, ma almeno l'interazione che c'è nel prenderle è umanamente più coinvolgente. E ci si può fare un'idea mentre le si ascolta, e rispondere di conseguenza. È poi bello scoprire altri radioascoltatori, chiacchierare e ridere assieme dei contenuti ascoltati, commentandoli di conseguenza.
Ma è qualcosa che bisogna provare. Tanto la radio in macchina ce l'abbiamo tutti.