mercoledì 13 gennaio 2016

Il figlio del Perozzi

Ieri sera era una splendida serata, per cui, dopo aver sbrigato tutte le scartoffie che riempivano la mia scrivania, sono andato al parco a correre.
In questo periodo dell'anno, il sole tende a tramontare lentamente verso le 18, e in giornate limpide come quella di ieri, dopo la nebbia, lo smog e la pioggia, si finisce sempre per stupirsi dei colori del cielo al tramonto. Durante il mio allenamento, mi piace salire di corsa in cima ad una collinetta del parco, un dislivello di una trentina di metri. Costruita artificialmente con le macerie degli edifici bombardati durante la seconda guerra mondiale, rappresenta l'unico punto in rilievo nel raggio di chilometri, circondato solo da palazzi e pianura. Se il cielo è terso, da lassù, scrutando in mezzo ai rami che l'avvolgono completamente, si riesce a vedere tutta la città, e il sole che le tramonta dietro.
Non c'è da stupirsi se si potrebbe scrivere un post anche solo sulla bellezza di tutto questo, ma non è il punto. Perché mentre arrivavo su, nella penombra della scalinata, ho visto due biciclette legate ad un cestino della spazzatura, che appartenevano a due ragazzi non so se maschio o femmina, ne ho visto solo l'ombra, che stavano seduti in cima alla collina, osservando il tramonto. Come stavo per fare io. Quello che mi ha colpito non è stata la vista di queste due persone, dato che può capitare di vedere qualcuno lassù al buio, quanto più la scia odorosa che emanavano tutt'intorno. Se dovessi descriverla in termini gentili, penso utilizzerei un odore "non proprio legale", se sapete cosa intendo. Questo, anche se stavo correndo in salita, mi ha dato da pensare.
Ho ragionato sulla differenza di posizioni delle loro figure e la mia. Entrambi ci stavamo godendo il tramonto sulla città, provando magari le stesse emozioni, ma con un atteggiamento diverso. Loro rilassati, spensierati, vivendo il momento, e io affannato, al lavoro per un futuro migliore almeno fisicamente, per stare meglio con me stesso. Mi ha fatto pensare a chi me lo fa fare, di uscire a giorni alterni, la sera, al buio, con la nebbia o con la pioggia, ad allenarmi. È forse una condanna, lavorare per qualcosa di futuro? Qual'è il punto di tutto questo? Hanno ragione loro, a vivere la vita come se fosse un gioco o io che la stavo vivendo come se fosse una condanna? Mi è quindi tornato in mente questo stesso dialogo, fatto dal mitico Perozzi di Amici Miei, quando suo figlio lo sgrida perché vuole andare a divertirsi con i suoi amici invece di pensare alla famiglia. È grullo chi la vita la prende come un gioco, oppure come una condanna?
Personalmente ho sempre pensato che, in qualsiasi ambito, sia sempre meglio non prendersi troppo sul serio, perché altrimenti si finisce per perdere la visione d'insieme delle cose. Chi vive la propria vita come una condanna, designata solo al mero dovere di assolvere i propri compiti, molto spesso finisce per sacrificare alcune cose che non sarebbero obbligatorie, se solo si riuscisse ad avere più elasticità. Non sapete in quante discussioni io, imcapponendomi su una posizione, a un certo punto mi son reso conto che le mie motivazioni non reggevano. Allora l'orgoglio entra in gioco, e si finisce per fare il contrario della propria volontà. Nemmeno però prendere tutto a ridere è una filosofia che può essere considerata valida universalmente, ci vuole moderazione.
La conclusione a cui sono arrivato, nell'elaborazione di questo pensiero, è confusa almeno quanto la mente dei due fumati in cima alla collina. Come si usa dire, la giusta misura sta nel compromesso, un po' di serietà e un po' di spensieratezza. D'altra parte io la mia parte di lavoro l'ho già fatta.
Significa che stasera posso stare a casa a riposarmi.

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